Il voto di domenica ci consegna due vincitori, Bossi e Casini; quest’ultimo certo anche grazie allo spostamento di voti determinato dalla campagna elettorale del Pd sulle abitudini sessuali di Silvio Berlusconi e al caso Noemi e seguenti.
Appare solo di facciata la soddisfazione trattenuta – o delusione malcelata – di Pdl e Pd, l’uno frustrato nelle sue ambizioni di sfondamento, l’altro che mantiene roccaforti importanti – Bologna, Firenze, Bari, Padova – ma che non può che registrare l’ennesimo restringimento del consenso. E il clamoroso flop del referendum – 23% di affluenza – premia proprio Lega, Udc, Italia dei Valori, suoi strenui oppositori, interrompendo la spinta verso il bipartitismo e rilanciando un bipolarismo dove le forze intermedie rimangono decisive.
«Il Pdl è primo e ha vinto nonostante le calunnie» si congratula Berlusconi: ma la vittoria sul filo di lana nella provincia di Milano segnala un appannamento della forza propulsiva del premier che deve far sue le parole d’ordine leghiste per strappare piazze tradizionalmente “rosse” come Venezia e Prato al centrosinistra.
Il Pd ha limitato i danni con i ballottaggi e il segretario Franceschini può tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Tuttavia sostenere che «il declino della destra è cominciato» non corrisponde alla realtà politica uscita dal voto: nei comuni si è passati da 25 a 5 per il Pd a 16 a 14, nelle province da 50 a 9 a 28 a 34, senza contare che affermazioni significative sono venute con il concorso dell’alleanza con l’Udc.
Il radicamento territoriale del centrodestra sta consolidandosi come conferma la capacità di reggere nei ballottaggi, a differenza di un tempo e di assimilare la lezioni di Bossi nel capire il territorio usando il suo linguaggio. Linguaggio che a tratti, anche il Pd si sforza di fare suo, declinando gli slogan “legge e ordine” in maniera poco coerente e spesso poco convincente.