Se tutte le bocce di Sergio Marchionne andranno in buca, nascerà il quinto gruppo automobilistico del mondo, con oltre cinque milioni di auto prodotte e 80 miliardi di euro di fatturato. Un gigante dell’auto, da quotare in borsa, autonomamente. Questa è la visione strategica sulla quale si muove l’amministratore delegato della Fiat. Per realizzare il suo sogno, Marchionne deve portare a Torino la proprietà della casa automobilistica Opel.
Per questo Marchionne comincia la settimana, il 4 maggio, con una visita a Berlino, a casa del governo tedesco. Incontrerà i ministri dell’Economia Karl-Theodor zu Guttenberger e degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Berlino avrebbe già detto alla Fiat e agli altri pretendenti di Opel che per ottenere l’appoggio dell’esecutivo dovranno presentare piani solidi e strategici a lungo termine. In pratica, si tratterebbe di un catalogo di 14 punti tra cui il mantenimento di tutti gli impianti in Germania e il mantenimento dei posti di lavoro.
Le difficoltà che lo aspettano sono enormi.
Gli americani della General Motors, che già ce l’avevano con lui per come aveva vinto con loro il braccio di ferro da due miliardi di dollari alcuni anni fa, ora sono anche offesi per l’offerta fatta sulla Opel: un miliardi di dollari. Si tratta di poco di più del simbolico dollaro con cui si compra un’azienda decotta: buy for a song, una canzone, dicono gli inglesi.
Ma la Opel decotta sembra lo sia e c’è da credere che se non fossero imminenti le elezioni il governo l’avrebbe già fatta fallire. Ma anche il governo tedesco cammina su una fune: da una parte ha 25 mila operai, più l’indotto e anche un bambino può calcolare i voti collegati; dall’altra, guai se i cittadini tedeschi avessero l’impressione che lo stato regala soldi del contribuente agli stranieri, siano americani o italiani.
Il governo tedesco vuole poi evitare di trovarsi con un unico pretendente per Opel, come è successo a Obama per Chrysler, con Fiat che ha ottenuto tutto quel che voleva perché non c’erano alternative. Così in ballo c’è anche Magna, una società di componentisca austro- canadese molto amata dai sindacati, per le stesse ragioni che la rendono in realtà un potenziale disastro: non produce auto, ma pezzi d’auto, quindi nessuna integrazione possibile, massima salvaguardia dell’occupazione.
Si tratti di Fiat, si tratti di Magna, Berlino avrebbe già detto che per ottenere l’appoggio dell’esecutivo dovranno presentare piani solidi e strategici a lungo termine. Un diktat articolato in 14 punti, tra cui il mantenimento di tutti gli impianti in Germania e il mantenimento dei posti di lavoro.
Altro ostacolo importante che Fiat dovrà superare è l’opposizione dei sindacati, che in Germania hanno maggiori poteri che in Italia. Due esponenti del vertice sindacale, Armin Schild e Klaus Franz, che siedono anche nel consiglio di sorveglianza di Opel, lo hanno già detto apertamente: sono contrari perché le linee di prodotto di Fiat e Opel non si integrano ma si sovrappongono e questo porterà a tagli d’occupazione sia in Italia sia in Germania. Quella che è poi la ragione che dà un senso all’integrazione tra Fiat e Opel, è la stessa ragione che fa dire ai sindacati: “Non è cosa buona né per i lavoratori italiani né per quelli tedeschi.”
In Germania i sindacati fanno i sindacati e è da un po’ che danno voce ai loro timori. In Italia i sindacati fanno politica e domenica finalmente ha espresso qualche timore un esponente politico della sinistra, Paolo Ferrero, segretario dell’ex rifondazione comunista (Prc), il primo a quanto risulta. Ferrero ha detto: Sergio Marchionne “è un buon manager per la Fiat, ma non vuol dire che lo sia per i lavoratori”. (Naturalmente non ha fatto una dichiarazione in mezzo ai lavoratori e alle bandiere rosse, ma a una trasmissione, “In mezz’ora”). Ferrero ha definito l’accordo tra Fiat e Chrysler “buono per i dirigenti, ma non è detto che vada bene per gli operai” e ha sollecitato il governo italiano a “imporre alla Fiat di non chiudere nessuno stabilimento e a mantenere i posti lavoro. La Fiat sta trattando con il governo statunitense e invece qui in Italia il governo non fa nulla: il rischio è che i costi dell’accordo vengano scaricati su Torino e sugli stabilimenti di Pomigliano e Termini Imerese”. In fondo il povero Ferrero, seppure non nella sede dovuta, chiede al governo italiano esattamente quel che il governo tedesco guidato da Angela Merkel ha già fatto da tempo.
In questo quadro a tinte cupe, un raggio di luce è il pieno appoggio del cda di Fiat a Marchionne, “all’iniziativa volta a verificare se vi siano i presupposti per l’integrazione in una nuova società delle attività di Fiat Group Automobiles, inclusa la partecipazione in Chrysler, e di General Motors Europe. Se l’operazione verrà finalizzata, si creerebbe un gruppo automobilistico con un fatturato di circa 80 miliardi di euro”. In questo quadro, “il Gruppo potrebbe valutare varie operazioni societarie, compreso lo spin-off di Fiat Group Automobiles in una società quotata che ne unisca le attività con quelle di General Motors Europe. Obiettivo di tutte queste operazioni è quello di assicurare il migliore sviluppo strategico del settore automobilistico”.
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