Apice Vecchia (Benevento)
“Un abitato fondato ai tempi dell’Antica Roma, con uno splendido castello dell’VIII secolo, su cui le calamità naturali si sono abbattute senza sosta. Reduce dal terremoto del 1930, fu gravemente danneggiato dal sisma del 1962, tanto che i tecnici del ministero dei Lavori Pubblici ne ordinarono l’evacuazione. A dare il colpo di grazia alle casupole in pietra fu però il sisma dell’’80, che obbligò anche gli ultimi “irriducibili” a trasferirsi nella new-town costruita a qualche chilometro di distanza. Da allora poco è cambiato tra questi vicoli rimasti fermi ai primi anni Sessanta. La natura si è presa una rivincita sull’uomo, riappropriandosi degli spazi che il paese le aveva strappato da secoli. Oggi, le piante si insinuano fra le travi divelte dei tetti, occupano le cucine e lambiscono gli oggetti dimenticati tra le macerie.
Nel 2005, la provincia di Benevento, il Comune di Apice e l’Università Iuav di Venezia elaborarono un piano per il recupero del paese vecchio che avrebbe dovuto trasformarsi in “una Pompei del ‘900”. Un museo a cielo aperto sulla vita quotidiana nella provincia italiana del dopoguerra, che oggi però non ha ancora visto la luce. «Lo Iuav ha completato le rilevazioni sullo stato di fatto, dalla Provincia è arrivato un finanziamento di 700 mila euro per rilastricare alcune strade e mettere in sicurezza qualche edificio ma poi tutto si è fermato – spiega Pasquale Albanese, assessore ai Lavori Pubblici di Apice – Ora il Comune è in cerca di altri finanziamenti, vogliamo suddividere il centro in lotti e recuperarlo, ma ci vorrà molto tempo»”.
Angri (Salerno)
“Restano almeno una cinquantina di famiglie nei prefabbricati fatiscenti di Fondo Caiazzo e di via Taverna del Passo. Una favela dove le storie dei terremotati (o dei loro figli, che hanno “ereditato” le strutture) si intrecciano a quelle dei moltissimi abusivi che hanno occupato i prefabbricati abbandonati, aspettando di ottenere gli alloggi popolari. Alcuni sono stati completati, altri sono in costruzione dagli anni ‘90”.
“Nell’attesa si vive nel degrado, un po’ per inerzia un po’ per disperazione, riparati da tetti d’amianto ormai lesionati che, quando tira il vento, spargono le loro polveri ovunque. A ridosso dei prefabbricati, i bambini giocano nella discarica a cielo aperto, dove fino a un paio di anni fa c’era una scuola, tra “monnezza”, pneumatici, materassi, vecchie carcasse di auto e motorini. E amianto. Amianto dappertutto”.
Palomonte (Salerno)
“Una quindicina di famiglie che vivono nei prefabbricati di lamiera ai piedi del centro. «Abito qui da 30 anni, ci ho cresciuto i miei due figli – racconta Carmine Perrotta, che in queste settimane sta ultimando la sua nuova abitazione – È stato difficile resistere così a lungo: le strutture dovevano durare solo 10 anni, per sopravvivere abbiamo dovuto rifare i pavimenti e isolarle come possibile, perché d’inverno si gelava e d’estate le lamiere diventavano un forno»”.
“Intorno a lui, il paese è cambiato. Se alcuni edifici sono stati recuperati attraverso un lungo restauro conservativo, lo stradone che serpeggia nel vuoto appoggiato su ciclopici piloni di cemento ha sfigurato il profilo della montagna. Raccontando come il sogno di riscatto di queste terre si sia spesso tradotto in piani urbani, infrastrutture e grandi opere sovradimensionate rispetto alle reali esigenze del territorio”.
Bisaccia (Avellino)
Il bellissimo borgo di origine medioevale era stato appena sfiorato dal sisma, ma il sindaco Salverino De Vito, che all’epoca era anche Ministro per il Mezzogiorno, riuscì ugualmente a farlo inserire in prima fascia e “regalò” così ai suoi concittadini un paese nuovo, proprio vicino al vecchio. Una new town progettata dall’architetto Aldo Loris Rossi, con una mastodontica chiesa in cemento più simile a un’astronave che a un luogo di culto. «La mia casa non era stata danneggiata, ma mi dissero che siccome quelle vicine potevano essere pericolanti, l’avrebbero demolita comunque – racconta Maria Castelluccio, che gestisce l’unico hotel di Bisaccia “nuova”, dove vive e lavora – Spostandoci qui hanno lasciato morire il centro storico, ma noi non l’abbiamo abbandonato e ci andiamo ogni giorno: gli anziani per la chiesa, i giovani per “lo struscio”. Quei pochi giovani che restano, intendo, perché qua non c’è lavoro e i ragazzi se ne vanno tutti al Nord».
