Dalla metà degli anni Sessanta Richter è stato attaccato quanto elogiato, più o meno allo stesso modo, per la sua precisione estrema, per l’esasperante opacità e per l’incredibile qualità della sua opera, che intimidisce. “Il pittore delle immagini sfocate” passa con disinvoltura dall’astrazione al realismo, dalla sfocatura alla nitidezza. L’audacia dei suoi dipinti è superata solo dall’esattezza del calcolo: l’apparente casualità è invece controllo, l’improvvisazione è studio, lo stile è precisione.
Basta dare un’occhiata al suo studio. Una grande scatola di scarpe bianca in mattoni e cemento ritagliata in un edificio industriale, in un sobborgo fuori Colonia abitato da famiglie troppo perbene (e perbeniste) da poter accettare quella visione. Tanto che ha piantato degli alberi (meli selvatici), rigorosamente in fila, per decorare il suo Muro di Berlino personale. Dentro, come fuori lo studio, tutto è al suo posto: il suo lavoro dipende da un controllo assoluto, la sua è una sindrome ossessivo-compulsiva.
Richter crede nel potere della pittura. Il suo lavoro chiede alla gente di interrogarsi, con mente fresca e lasciando da parte ogni romanticismo, sul rapporto tra controllo e libertà, austerità contro esuberanza, fede contro scetticismo. Possiamo credere in quello che vediamo? La questione non riguarda solo l’arte: è essenzialmente politica. E’ una questione di speranza.
Inutile dire che in lui questa coscienza di sé, e del mondo, si è formata grazie (o a causa di) al suo passato. Le ideologie, le dittature, le privazioni. Un esempio lampante arriva da una serie di 48 fotografie in bianco e nero, dipinte più di 30 anni fa, che ritraggono un pantheon di cupi uomini bianchi. Thomas Mann, Puccini, William James, Kafka. Ritratti che introducono il problema della figura paterna per i tedeschi della sua epoca: il problema di una generazione disonorata perché accecata dai fumi hitleriani, ma anche il problema di un uomo in carne e ossa, suo padre, che Richter ha sempre considerato “uno sfortunato intruso “, anche prima di scoprire che non era il suo genitore naturale.
La storia personale dell’artista si lega così a quella di una nazione. Nel 1957 Richter si è sposato con Ema Eufinger, a cui ha dedicato lo splendido “Emma – Nudo su una scala” (1966). E’ solo la prima volta, ne seguiranno altre due. Muralista di successo, Richter in quel periodo ha ottenuto i privilegi dello Stato, tra cui quello di viaggiare. E proprio in un viaggio, in Germania dell’Ovest, ha visto Pollock e ha capito di non essere abbastanza audace. La sua arte aveva bisogno di una rivoluzione.
Così nel 1961 la fuga dalla Germania dell’Est, il rifiuto dell’arte di regime e l’inizio di una nuova era, quella dei dipinti sulle fotografie. “Quando ho iniziato nei primi anni Sessanta la gente rideva. Mostravo chiaramente che dipingevo a partire dalle foto, sembrava così infantile”. Ma la provocazione era formale: l’intento era sfidare i cliché dell’espressione artistica dell’epoca, usando fotografie volutamente banali e impersonali, immagini di tutti i giorni, per costringere lo spettatore ad afferrare le percezioni espressamente dipinte. “La fotografia mi ha liberato, mi ha fatto scoprire un altro punto di vista. Ecco perché ho voluto sperimentarla. E non era la fotografia al servizio della pittura, ma la pittura al servizio della fotografia”.
Dipingere quadri astratti (o “in-dipinti”, come sono stati battezzati) “è come camminare, passo dopo passo, senza intenzione, fino a scoprire dove si sta andando”. Un percorso che lo ha portato lontano. Oggi Richter ha i capelli grigi, vive con la sua terza moglie, Sabine Moritz, e ha due figli adolescenti, un maschio e una femmina.
Lontanissimo sembra il ciclo di quadri “18 Oktober 1977”, in cui Richter ha ritratto i corpi senza vita dei terroristi della RAF, il gruppo di guerriglia urbana comunista e anti-imperialista che operò in Germania a partire dal 1970. “Mentre dipingevo questi cadaveri ero come un becchino”. Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller, fondatori del movimento, si sono suicidati nel carcere di Stammheim. Il tentativo di Richter, la sua ennesima provocazione, era dare un volto umano ai carnefici dell’ideologia, che per amore delle idee, si sono trasformati essi stessi in vittime.
