ROMA – Fca, bonus Marchionne. Quando il salario era una variabile indipendente. Il Fatto. Tornando sul bonus legato alla produttività nella Fiat americana annunciato da Sergio Marchionne, è utile ripercorrere la storia delle relazioni industriali tra impresa e sindacato degli ultimi decenni a partire proprio dalla concezione che via via si è andata trasformando degli aggiustamenti salariali. Salvatore Cannavò, giornalista de Il Fatto Quotidiano, ne ha ricostruito il percorso, dagli anni ’60 ad oggi, quando, esulta lo stesso Marchionne, è stata decretata la “fine di un’epoca salariale”. O, all’opposto, la famosa partecipazione agli utili dei dipendenti va considerata invece “l’ultima finzione che cancella i sindacati”, come l’ha liquidata Maurizio Landini di Fiom (che infatti non ha firmato il contratto)?
C’è stato un tempo in cui nel movimento sindacale vigeva una regola d’oro: il salario come variabile indipendente. I livelli retributivi e gli aumenti conseguenti dovevano corrispondere a un “elemento esterno fisso”, come i livelli minimi di sussistenza, che ponevano i salari in una posizione rigida rispetto ai profitti.
Stiamo parlando degli anni Sessanta, in cui questi discorsi animavano il dibattito tra economisti come Claudio Napoleoni e Piero Sraffa. E nel vivo del decennio che stava incubando la riscossa operaia, quelle tesi permeavano il dibattito della Cgil dove andava affermandosi la leadership di un dirigente come Luciano Lama che sul tema del “salario variabile indipendente” aveva deciso di spendersi. Nel bene e nel male, come dimostreranno i fatti successivi.
I rinnovi contrattuali del ‘69, che danno origine al famigerato “autunno caldo”, si svolgono all’insegna di “aumenti uguali per tutti”, relegando il “cottimo” a una fascia sempre più residuale. Quella impostazione, che punta a conseguire una struttura del salario rigida e garantita ai lavoratori, trova l’apice nel cuore degli anni 70 quando, proprio Luciano Lama, ormai segretario della Cgil, e il presidente di Confindustria, Gianni Agnelli, firmano l’accordo sul “punto unico di contingenza”. Si trattò dell’unificazione del valore uninominale del valore della contingenza che misurava l’aumento determinato dalla scala mobile (in vigore dal dopoguerra) mentre prima c’erano valori diversi a seconda della categoria o della qualifica. Le variazioni percentuali degli aumenti salariali furono molto più forti e secondo molti furono all’origine della spinta inflazionalistica.
Sarà Luciano Lama, nel 1978, a definire “una fesseria” la formula del salario variabile indipendente. Con la “svolta dell’Eur” inizia quella che fu definita la “politica dei sacrifici” e quindi della moderazione salariale. Niente, però, a confronto alla soppressione dei punti di contingenza sulla scala mobile, realizzata dall’allora governo Craxi nel 1984, quando si crea la grande frattura a sinistra e il massimo scontro tra il Pci di Enrico Berlinguer e il Psi craxiano. Il referendum del 1985, darà ragione a Craxi segnando tutta la vicenda sindacale a venire.
Il 1993 costituisce un nuovo spartiacque. La scala mobile viene definitivamente archiviata e con gli accordi di concertazione firmati da Cgil, Cisl e Uil si passa agli aumenti contrattuali sulla base dell’inflazione programmata. Un modo per contenere, in ossequio ai dettami di Maastricht, gli aumenti salariali. Il sistema dell’inflazione programmata finirà, poi, nel 2009, con l’accordo separato firmato da Cisl, Uil e Ugl con il governo di Silvio Berlusconi che istituirà un nuovo indice, l’Ipca.
Intanto, però, Sergio Marchionne ha già messo in moto la crisi del contratto nazionale dei metalmeccanici uscendo da Confindustria e realizzando il contratto Fiat. La novità di ieri si colloca in questa strategia e fa il paio con il salto all’indietro, anch’esso al 1969, compiuto dal governo Renzi sull’articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori. Una fase si sta chiudendo per il movimento operaio e sindacale e quello che ne è più consapevole, oggi, è proprio Marchionne. (Salvatore Cannavò, Il Fatto Quotidiano).