Remake Usa dell’ottimo Lasciami entrare di Tomas Alfredson – secondo altre fonti, visto l’inizio delle riprese, soltanto una diversa chiave di lettura dell’omonimo romanzo dello svedese John Ajvide Lindqvist -, Blood Story può considerarsi a tutti gli effetti uno dei miglior horror degli ultimi anni. Antitetico alle atmosfere patinate da teen movie di Twilight, il film di Matt Reeves – già autore di Cloverfield – ambienta in New Mexico, in piena epoca reaganiana, il racconto di Lindqvist dando vita ad un film decisamente imprevedibile.
Se è vero che la descrizione di paesaggi lividi e angoscianti ricalca alla perfezione le atmosfere del precedente lavoro di Alfredson, Blood Story edulcora le analisi sociali del romanzo di Lindqvist (il disagio sociale, la disoccupazione, il divorzio) per lasciar spazio a scene tipicamente horror – alcune ai limiti del gore – che non rovinano affatto il livello di credibilità della storia.
Trama. Il dodicenne Owen (Kodi Smith-McPhee) è continuamente vessato dai bulli della scuola e ignorato dai genitori divorziati. In una fredda sera invernale incontra Abby (Chloe Moretz), una sua coetanea da poco trasferitasi assieme al padre (Richard Jenkins) nel suo condominio. La nuova vicina di Owen ha però delle abitudini assolutamente fuori dal comune. Esce in cortile solo al calare del sole, non ha amici e nonostante la neve ama camminare a piedi scalzi come se fosse indifferente al freddo. Tra i due ragazzini, soli ed emarginati, nasce un profondo sentimento di amicizia, quasi di reciproca dipendenza. Improvvisamente però una serie di brutali omicidi inizia a sconvolgere la città e il silenzioso padre di Abby scompare nel nulla. Owen, pur nutrendo dei sospetti nei confronti della sua inseparabile compagna di giochi, non riesce a fare a meno di lei…
Punti di forza. Magistralmente interpretato dai due giovani protagonisti (Kodi Smith-McPhee e Chloe Moretz), Blood Story risulta un congegno perfetto sia al livello di narrazione che di immagini. I frequenti primi piani di Reeves e l’alternanza di scene di dolcezza e d’improvvisa violenza riescono a calare perfettamente lo spettatore nei panni di Owen. I suoi dubbi, le sue debolezze non possono che generare un climax di crescente tensione. La scoperta del diverso, del vampiro non corrisponde ad una sensazione di orrore. Ma di profonda desolazione, di tristezza davanti ad una condizione animalesca che rende il male l’unica via percorribile per poter sopravvivere. Più che un horror un film di fomazione travestito da fiaba nera. Nota di merito per la splendida fotografia di Greig Fraser – abile nell’esaltare i colori notturni e i cieli plumbei del New Mexico – e la colonna sonora del già premio oscar (“Up”) Michael Giacchino.
Romantico, angosciante, insolito. E soprattutto in grado di non far rimpiangere l’originale scandinavo. Molto più che un remake in salsa americana. Una pellicola da non sottovalutare.