ROMA – Presentato alcuni giorni fa al Festival di Locarno, il film “Sangue”, scritto, diretto e interpretato dal regista e attore teatrale 54enne Pippo Delbono sta riuscendo nella non facile impresa di mettere tutti d’accordo, anche persone dalle idee solitamente distantissime. Già, perchè nel film di Delbono c’è anche Giovanni Senzani, ex Brigate Rosse.
“Gli abbiamo bendato il volto perché non riconoscesse né avesse consapevolezza del momento… Abbiamo poi portato via la salma per non lasciarla in quel luogo orribile”. Sullo schermo, al Festival di Locarno, parla proprio Giovanni Senzani, che in questo passaggio racconta i dettagli dell’uccisione di Roberto Peci, l’operaio che aveva l’unica colpa di essere il fratello di un pentito br. Era il 3 agosto del 1981, il terrorista allora filmò l’esecuzione dopo aver ideato il sequestro durato 55 giorni.
Maurizio Porro per il Corriere della Sera ci racconta il Senziani attore:
Ora Senzani, ormai uomo libero dal 2010, è interprete di un film (l’unico titolo italiano in concorso) e vive una giornata da protagonista al Festival di Locarno. “Sangue” racconta la morte quasi in contemporanea, nel 2012, di due donne: la madre del regista e poi la compagna di Senzani. Lutti di due uomini distanti, uniti dal dolore. Un documentario i cui si mescolano sentimenti privati e la politica.
Certo che se il pubblico in parte scappa dalla sala nel momento in cui il regista riprende la mamma in coma all’ospedale fino all’ultimo respiro, uguale impressione anche se di segno diverso fa il racconto dell’uccisione di Peci, fatto per la prima volta con un apparente cinismo che impressiona. A ciglio asciutto ma tenendo un tono da speaker della violenza, Senzani narra come andarono le cose. Non pentito parla della preparazione del gesto, del trasporto dell’inconsapevole ragazzo e due volte sostiene che anche loro avevano un po’ di pìetas . Dice che non crede nella redenzione e si sofferma nel descrivere quel posto squallido in cui fu segregato Roberto Peci. Un racconto choc.
Polemiche per la performance di Senziani. Il giudice Gian Carlo Caselli sulle pagine del Fatto Quotidiano scrive:
Impossibile per me tacere dopo la “performance” del capo brigatista Giovanni Senzani al Festival di Locarno. Sono stato (con il collega Griffey) il primo giudice istruttore ad interrogare Patrizio Peci. Grazie alle sue rivelazioni ebbe inizio l’irreversibile crollo sia delle Brigate rosse che di Prima Linea, due bande armate sanguinarie che per anni hanno impestato il nostro Paese, dichiarando unilateralmente – dal buco nero della clandestinità – una guerra spietata. Senzani – appunto – a questa collaborazione di Peci reagì con una rappresaglia di marca decisamente nazista. Ordinò e diresse il sequestro di Roberto, fratello di Patrizio. Roberto venne tenuto prigioniero per settimane in condizioni infami, sottoposto a maltrattamenti, a pressioni psicologiche inaudite. Poi fu ucciso vigliaccamente in una discarica il 3 agosto 1981. E ne filmarono pure l’esecuzione, distribuendo la cassetta un po’ dovunque, senza vergogna. L’obiettivo delle Br era fargli “confessare” una panzana clamorosa, vale a dire che il fratello era stato arrestato non una ma due volte, e che dunque aveva agito da infiltrato in accordo con i Carabinieri.
All’inizio della sua prigionia, Roberto raccontò la verità e le Br la riportarono nel primo volantino. Di un doppio arresto neppure l’ombra. Poi riuscirono, coi loro metodi, ad estorcergli il falso, ma questo non gli salvò la vita. E Roberto Peci fu giustiziato solo perché fratello di Patrizio, il primo terrorista pentito. Quelle del sequestro furono ovviamente settimane drammatiche. Di Patrizio Peci mi colpì la determinazione. “Ho detto la verità – ripeteva – ho scelto la strada della collaborazione perché è quella giusta. Il sequestro di mio fratello è una vigliaccata criminale e io non posso cedere”. Ma soprattutto ricordo la fermezza dei familiari, pur nella disperazione e nella sofferenza.
“Ci vorrebbe sempre un contraddittorio in queste occasioni, un pubblico a più voci con chi quegli anni li ha vissuti…”. Sono invece le parole di Sabina Rossa. Lei c’era quando nel 1979 le Brigate Rosse uccisero suo padre Guido, sindacalista genovese della Fiom-Cgil.
Intervistata dal Corriere della Sera Sabina spiega e attacca:
“Io non sono mai stata per la censura, sono sicura che per capire fino in fondo la realtà bisogna conoscerla, bisogna discuterne. Ma non si può nemmeno pensare di discuterne salendo in cattedra così, magari davanti a un pubblico di giovani, senza avere davanti una platea a più voci che consenta il confronto Sono sempre stata dell’idea che non si possa negare il diritto di parola a nessuno, che sia fondamentale garantirlo anche ai brigatisti che oggi sono liberi”.
Un paragone con la Francia quello invece lanciato dal Giornale:
In Francia i terroristi non possono neppure essere intervistati. Qui gli assassini (e mai parola fu più calzante, visto che Senzani oltretutto filmò la morte della propria vittima) vincono addirittura uno dei premi più rilevanti del Festival di Locarno se non altro perché attribuito dall’-International Federation of Film Societies che dal 1947 sceglie nei festival i film ritenuti «importanti». A essere onesti, la motivazione lascia senza parole chiunque conosca anche solo di sfuggita Don Chisciotte di Cervantes.
Basta leggerla: «Un film coraggioso e molto personale, che, come nel romanzo di Cervantes, intreccia la perdita di ideali, la morte, la lotta rivoluzionaria, la disillusione, il potere dell’arte e dell’amore». Dunque Senzani, che ha scontato «appena» 17 anni di carcere pieno ed è pienamente libero dal 2010, viene assimilato a Don Chisciotte. E in nessuna parte della motivazione viene riferito che trattasi del capo più feroce della banda terroristica più sanguinaria del dopoguerra, anzi: nella motivazione della FICC è semplicemente «un ex membro delle Brigate Rosse ».