ROMA – “Timbuktu”, del regista mauritano Abderrahmane Sissako è il film che ci mostra i jihadisti nella loro nuda mediocrità. Sotto il turbante del guerriero di Allah si nasconde un uomo piccolo piccolo, e per “stanarlo” ci voleva una pellicola che non raccontasse gli scontri armati ma il “jihad” della porta accanto, la guerra santa fatta di lapidazioni agli adultere, bassezze, vendette consumate all’ombra della shari’a.
“Timbuktu” era in concorso a Cannes 2014, dove ha vinto il “Premio giuria ecumenica”. In Italia non è stato ancora distribuito. Chissà se qualcuno se ne interesserà dopo la recensione su Repubblica di Curzio Maltese, da maggio europarlamentare per “L’Altra Europa con Tsipras”:
“COMPAIONO ogni molti anni film che dicono una parola definitiva al cuore e alle menti degli spettatori sulle grandi tragedie della storia. Timbuktu di Abderrahmane Sissako è per la guerra jihadista di Al Qaeda quello che Il Pianista di Polanski è stato per la Shoah, Apocalypse Now per il Vietnam o Orizzonti di gloria per la prima guerra mondiale. Un’opera che vista una volta si fissa per sempre nella memoria e ritornerà ogni volta che l’attualità, un articolo di giornale o un telegiornale o una fotografia ci porterà nuove mostruosità del fanatismo terrorista. Timbuktu è un capolavoro consacrato dalla critica a Cannes, esaltato da Le Monde alla recente uscita in Francia, inserito fra i favoriti per l’Oscar al film straniero, ma finora ignorato dalla distribuzione italiana.
L’autore è mauritano di nascita, ha studiato cinema nell’ex Urss e vive oggi fra Parigi e il Mali, terra paterna. A 53 anni aveva girato solo tre lungometraggi, La vie sur terre ( 1998), Aspettando la felicità ( 2002) e il geniale Bamako ( 2006), immaginario processo della società civile africana al Fmi e alla Banca mondiale, ma è un autore venerato dal culto cinefilo. L’idea di Timbuktu gli è venuta guardando su YouTube un filmato sull’esecuzione di una giovane coppia del Mali, genitori di una bambina di soli sei mesi, colpevoli di non essere sposati. I due ragazzi erano stati interrati fino al collo nella sabbia e quindi lapidati a morte.
Ma, raccolta una serie d’interviste e documenti e filmati, Sissako ha per fortuna deciso di virare dal documentario a un vero film. Non immagini lo spettatore di dover assistere a un’infinita serie di ripugnanti nefandezze sanguinarie. La storia è semplice, poetica, a tratti ironica. Ambientata a Timbuktu, “la perla del deserto”, durante l’occupazione fra il 2012 e il 2013 da parte dell’alleanza salafita, racconta il tormento parallelo di una comunità di cittadini sottoposti alle angherie e agli assurdi divieti dei fanatici e dall’altra il destino tragico di una fiera famiglia tuareg. Una madre e una bambina troppo belle da evocare il desiderio di un capo jihadista, un padre che sarà condannato a morte per aver ucciso accidentalmente un pescatore durante un litigio.
Sotto i cappucci che a volte li consegnano al mito mediatico come giustizieri in lotta contro il colosso occidentale, i miliziani di Al Qaeda qui si svelano per uomini piccoli, ignoranti, cattivi e ipocriti che usano la religione e la sharia come puro pretesto per scatenare sadismo e volontà di potere. Pretendono di essere i portatori dei valori dell’Islam, ma profanano la moschea con armi e scarponi, per questo rimproverati da un dignitoso e coraggioso imam. Impongono le rigide regole della sharia agli altri, ma fumano e bevono e si drogano di nascosto, rapiscono e violentano giovani studentesse.
Non mancano scene di sublime grottesco: l’araldo che elenca alla popolazione i divieti ma finisce per non ricordarli tutti; il rapper pentito costretto a recitare la conversione in favore di telecamera, con il miliziano che gli suggerisce le espressioni di estasi religiosa; i soldati che discutono se sia più forte Zidane o Messi, dopo aver appena requisito un pallone. Ma in un lampo si passa dal sorriso all’orrore e alla commozione, di fronte alle scudisciate impartite a ragazze e ragazzi per aver suonato una chitarra o aver giocato a calcio. Non c’è in Timbuktu l’ombra del giustificazionismo per le atrocità dei qaedisti. I signori della guerra locali e quelli occidentali seguono la stessa feroce logica di una guerra che è di armati contro disarmati, dove solo le vittime conservano bellezza, ragione e dignità. I jihadisti qui non sono visti come i nemici della civiltà occidentale, ma della civiltà tout court e anzi soprattutto della civiltà dei luoghi che pretendono di salvare dal Satana straniero.
Timbuktu, leggendaria capitale del deserto, sito Unesco e settima meraviglia del mondo, per secoli teatro di scambi fra civiltà diverse, splendore di palazzi luminosi e immensa libreria che ospita ancora le opere di Avicenna e 700 mila manoscritti, è l’altra vittima protagonista, occupata dai jihadisti che hanno compiuto una sistematica distruzione dei monumenti prima di essere scacciati dagli eserciti francese e del Mali. Il simbolo stesso della bellezza, scampata per miracolo alla furia dell’intolleranza, come la gazzella che al principio e alla fine del film sfugge, non si sa per quanto, alle raffiche di mitra sparate dai soldati dell’orrore.