MILANO – L’educazione in via Paravia a Milano è un tema caldo. Da una parte una prima elementare chiusa per la presenza di troppi alunni stranieri, dall’altra una scuola araba di cui viene richiesta la chiusura.
La vicenda della classe dell’istituto Lombardo Radice di via Paravia ha conquistato le cronache nazionali. Diciassette alunni della scuola frequentata in passato anche da Mario Calabresi, attuale direttore del quotidiano La Stampa, sono stati trasferiti: la prima classe non stata avviata a causa dei troppi stranieri iscritti, 15 su 17.
L’altra storia è rimasta confinata alle vicende meneghine. Sempre in via Paravia è sorta una scuola che doveva essere un modello nuovo di educazione, volto a integrare la cultura araba-egiziana. I bambini avrebbero avuto l’opportunità di conservare la cultura d’origine e imparare quella del paese in cui stavano crescendo. Intitolata al grande scrittore egiziano Naghib Mahfuz, ed inizialmente situata in via Ventura, era sorta nel 2006 dopo la chiusura dell’istituto di via Quaranta che tanto fece discutere l’allora amministrazione Moratti. Ma questa volta le cose sembravano impostate diversamente: legalità, programmi concordati, insegnamento dell’italiano con docenti italiani e arabo con insegnanti arabi, insomma un arricchimento per la città. E allora cosa è andato storto?
La denuncia parte da Yalla Italia, “Il blog delle seconde generazioni”, con un appello inaspettato ma chiarissimo: “Chiudete la scuola araba Naghib Mahfuz”. La questione si accende quando il sito scopre che la scuola farebbe delle discriminazioni tra bambini e bambine: “presentando agli esami alcune allieve, qualcuno avrebbe chiesto di chiudere un occhio sulla loro preparazione in quanto meno rilevante”. Da qui il dubbio: si è fatto tanto parlare della possibilità di avere una scuola araba legalmente riconosciuta, si è discusso di tutto dal punto di vista politico, ma non si è toccato il tema fondamentale. “La scuola istruisce in modo adeguato gli alunni? Chi sono gli insegnanti? Qual è il loro curriculum? Che programma seguono? – sono le domande che si pone Marino Pillitteri, responsabile di Yalla – si fanno tante polemiche, ma questi allievi che vanno in una scuola privata a pagamento, si aspettano qualità e trasparenza ed è giusto che ricevano una buona istruzione”.
Il rischio che la scuola diventi un ghetto preoccupa anche Paolo Branca, islamista dell’Università Cattolica di Milano, “il tempo dedicato all’italiano e alla cultura italiana è irrisorio” e quando i 150 allievi dell’istituto si troveranno a confrontarsi con il paese in cui stanno crescendo avranno dei notevoli problemi: “pochi di loro torneranno in Egitto, gli altri vivranno e lavoreranno qui e senza istruzione e conoscenza della lingua si troveranno in seria difficoltà” conclude Branca.
Intanto all’appello presentato diversi giorni fa non ha risposto nessuno, né le istituzioni predisposte ai controlli né la scuola accusata “Non hanno risposto, non hanno smentito – continua Pollitteri – non ci hanno neppure contattato, se avessimo scritto qualcosa di sbagliato avrebbero fatto un battage mediatico che per ora non si vede”.