ROMA – Ufficiali della Marina indagati per la strage dei profughi dell’11 ottobre del 2013, quando nel naufragio di un barcone nel Canale di Sicilia persero la vita 268 persone (morti presunti, dal momento che sono solo 26 i corpi ritrovati). Tra loro anche sessanta bambini.
La Procura di Roma, informano Michela Allegri e Sara Menafra sul Messaggero, ha deciso infatti di iscrivere nel registro degli indagati i vertici della centrale operativa del comando generale delle Capitanerie di porto. Quella strage, è la tesi della Procura, avrebbe potuto essere evitata se solo i soccorsi fossero stati più tempestivi. Gli ufficiali della Marina sono così indagati con l’accusa di omicidio colposo e omissione di soccorso.
Secondo l’ipotesi accusatoria, quel giorno, l’11 ottobre del 2013, pur sapendo che la nave Libra si trovava a meno di un’ora di navigazione dal peschereccio carico di profughi in difficoltà al largo di Lampedusa, gli ufficiali rimpallarono la responsabilità dei soccorsi con Malta: in questo modo, sostiene sempre l’accusa, si sarebbero perse ore preziose, con la conseguenza che moltissimi migranti morirono in mare.
Allegri e Menafra sul Messaggero ricostruiscono quella giornata convulsa:
È mezzogiorno di quell’11 ottobre, forse prima, quando uno dei profughi a bordo di un peschereccio stracarico partito dalla Libia, per la prima volta prova a contattare i soccorsi italiani. Una settimana prima, il 3 ottobre, in quello stesso braccio di mare sono morte altre 368 persone. A chiamare è Mohanad Jammo, 40 anni, primario dell’unità di terapia intensiva di un ospedale di Aleppo, sopravvissuto al naufragio insieme alla moglie, ex docente universitaria di ingegneria meccanica. Nel naufragio Jammo perderà entrambi i figli, di 6 anni e 9 mesi. A raccogliere l’sos è la centrale di coordinamento di Roma.
Il barcone si trovava a 113 chilometri da Lampedusa e a 218 chilometri da Malta: Jammo lo vede dal gps del suo cellulare. Per questo motivo contatta l’Italia. Non sa che molto più vicino, a circa venti miglia di navigazione, c’è la nave Libra della Marina italiana, che pattuglia proprio quel tratto di mare.
Prosegue il Messaggero:
Sull’orario di quella prima telefonata, girerà uno dei punti dell’inchiesta della procura romana. Jammo ha raccontato più volte di aver parlato la prima volta con la centrale alle 11 di mattina e che fin da quel primo contatto la Guardia costiera lo rassicura. La Marina dice invece che il primo contatto, incomprensibile, è delle 12.26. Quel che sembra chiaro è che alle 13 la centrale operativa italiana rinuncia all’intervento e passa formalmente la richiesta di soccorso ai maltesi, nonostante questi si trovino molto più distanti.
Gli ufficiali italiani sostengono di aver agito nell’ambito di quanto stabilito dalla Convenzione di Amburgo, che impone a ciascuno Stato la responsabilità del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso in aree definite.
Ma quando il coordinamento passa a Malta, c’è un altro errore. La nave Libra non viene ancora allertata. Solo alle 16:22 quando La Valletta informa Roma di aver individuato il barcone alla deriva. Venti minuti dopo il peschereccio si è ormai ribaltato, con tutti i suoi passeggeri. Solo allora viene chiesto aiuto all’Italia. Alle 17:51, ricorda il Messaggero, arriva sul posto il primo pattugliatore maltese. Alle 18 arriva anche la Libra, oltre ad alcuni mezzi di soccorso da Lampedusa. Vengono recuperati 26 corpi senza vita e oltre 200 persone, per fortuna ancora vive.
Adesso la Procura di Roma dovrà stabilire se si sarebbe potuto salvare tutti, e non si sia riusciti a farlo per un rimpallo di responsabilità evitabile.