ROMA – Birmania. I monaci buddisti di U Wirathu e la violenza contro i musulmani. Abituati in Occidente a difenderne i diritti di autodeterminazione violati dalla Cina in Tibet, è sconcertante la notizia di monaci buddisti birmani che predicano e fomentano la violenza nei confronti della minoranza musulmana. Succede nella Birmania, la repubblica del Myanmar, sbrigativamente salutata come all’alba di una rinascita democratica sancita dal ritorno della “pasionaria” San Suu Kyi.
Proprio il ripristino delle libertà di espressione ha scatenato gli istinti più profondi e meno nobili della popolazione, sulla quale ha enorme presa il potere di persuasione dei monaci. Il loro leader, U Wirathu (per Time “la faccia buddista del terrore”), parla apertamente di difesa di razza e religione e invita senza mezzi termini alla discriminazione dei relativamente pochi musulmani birmani. Usa linguaggio e metafore religiose, ma il succo è chiaramente in contraddizione coi precetti pacifisti del buddismo.
U Wirathu, che finì in prigione per nove anni ai tempi della dittatura, nega che i suoi proclami espliciti (come «il sangue dei buddisti sta per bollire») rappresentino un incitamento alla violenza. Eppure oltre 250 persone, in gran parte musulmane, sono state uccise durante sommosse scoppiate in tre occasioni fra il 2012 e il 2013. Il monaco si limita a osservare che, quando un elefante furioso entra in un villaggio, per i buddisti esso non viene ucciso, perché si rispetta la vita, ma bisogna erigere delle barriere per impedirgli di nuocere. (Ettore Bianchi, Italia Oggi)