La lotta dei minatori, le cui storie anche personali, anche troppo personali, come quelle delle doppie mogli, svelate dai messaggi via sonda, confessate da sotto terra nei messaggi di speranza, è sbucata come una sorgente violenta nella pancia di un Cile molto diverso da quello di Unitad Popular, ma dove le tragedie e le resistenze sembrano avere lo stesso marchio, cantato da grandi poeti come Pablo Neruda e da scrittori più popolari come Luis Sepulveda o anche Isabel Allende.
“Viven”, urlano i cileni mandando a Acatama la Marina Militare a costruire la capsula che invece che nei cieli precipiterà nelle viscere della terra per salvare los mineros entro la metà di novembre o forse prima.
Ma “Viven” è anche il nome dell’associazione dei sopravvissuti di una altra grande epopea cilena, quella dei 16 ragazzi uruguayani, atleti di una squadra di rugby, decollata da Montevideo per arrivare a Santiago e schiantata sulla cima delle Ande nel 1972, che subito hanno scritto ai minatori, incitandoli a resistere.
La storia di quella altra sopravvivenza è diventata una leggenda per il particolare che la permise: il cannibalismo confessato dai ragazzi costretti a cibarsi dei resti dei compagni morti nell’impatto dell’aereo e conservati nel ghiaccio eterno delle vette andine. Due di quei “cannibali”, poi assolti da tutte le chiese, e da tutti i riti (c’è chi scrisse che quell’atto di mangiare la carni dei compagni era stata come la comunione della Chiesa Cattolica Romana) riuscirono a scendere lungo il versante cileno della grande montagna e diedero l’allarme: ne salvarono 24 e fu un vero miracolo, una specie di Resurrezione, quando, di quell’aereo, che aveva tentato di planare sulla neve, si erano perse le tacce da più di un mese.
Non è un caso che oggi quella storia drammatica incominciata a oltre quattromila metri di altitudine si saldi con quella in atto settecento metri sotto terra a Nord, in uno scenario così diverso dello stesso Paese sudamericano: la neve eterna e il deserto arido.
Questo è appunto il Cile delle grandi contraddizioni geografiche e dei drammi assoluti, come quello di Salvator Allende, che lo stesso filo rosso della cronaca estrae in questi giorni dalla memoria discussa di un esperimento politico anni Settanta, che affascinò molto e lasciò segni profondi anche nella politica italiana: i famosi “spaghetti italiani conditi con la salsa cilena”. Un progetto, benedetto soprattutto da un leader come Enrico Berlinguer, che lavorava in quegli anni per il compromesso storico.
L’esperienza di Unitad Popular con l’alleanza tra cattolici, socialisti, comunisti, non era, forse, un bel modello per la marcia di avvicinamento tra una parte della Dc e il Pci berlingueriano? Ben prima che sulla scena irrompesse Craxi?
Si riparla di Allende perchè uno dei film in corsa a Venezia, girato dal regista cileno Pablo Larrain ( quello di Tony Manero), riporta a galla il tragico finale di Unitad Popular e la morte di Allende. Un film che piazza una bella storia d’amore tra un impiegato dell’obitorio di Santiago e una ballerina sulla grande e drammatica scena del golpe dei generali.