Teatro del film è quasi sempre l’obitorio della capitale cilena sconvolta dalle autopsie dei morti trucidati dai militari o periti negli scontri di quel 13 settembre. Ovviamente l’autopsia più illustre è quella sul corpo di Salvator Allende e nel film il sospetto che il presidente non si fosse ucciso ma fosse stato piuttosto “mitragliato” dai golpisti diventa quasi una certezza.
Nel Cile di oggi, affacciato sul bordo della miniera in attesa dell’operazione di soccorso e tanto diverso da quello di Allende e di Pinochet, quella lettura della autopsia, 37 anni dopo, sarà come una scossa, un po’ come se in Italia, fatte tutte le differenze, si sostenesse improvvisamente che Benito Mussolini si era suicidato e non era stato giustiziato dal comandante Valerio. Una pagina di storia che si riscrive e si capovolge, almeno in un singolo atto finale.
Chi era in circolazione in quegli anni non può non ricordare i caccia dell’ Aviazione cilena volare radenti sul palazzo della Moneda, dopo che i generali si erano sollevati a Valparaiso, mobilitando la Marina e Allende con un pugno dei suoi asserragliato nei saloni di quel grande palazzo grigio, le armi imbracciate e, appunto, l’elmetto in testa?
I militari cileni erano sempre stati leali custodi di un sistema democratico eccezionale nel continente sudamericano. Ma erano anche un esercito duro, che marciava nei viali di Santiago battendo il passo dell’oca, retaggio di una formazione militare chiaramente tedesca. E nascosti in tante città e paesi di quella lunga striscia di terra, c’erano moltissimi rifugiati nazisti e fascisti, scappati nell’ultima guerra, dalla Germania e dall’Italia. Chi è stato in Cile in quegli anni ne ha incontrati tanti, assoldati da Pinochet, estremisti fanatici che magari avevano poi finito con il ricoprire anche incarichi pubblici e diplomatici, come quel console d’Italia nella città di Punta Arenas, nell’estremo Sud, che sarebbe diventato una specie di custode dell’isola ghiacciata di Dawson, dove lo stesso Pinochet, seppelliva, vivi o morti, i leader e i militanti di Unitad Popular.
Oggi in Cile, dopo un breve interludio di sinistra, governa di nuovo la destra, ma è la destra morbida di Salvator Pineda, un mini Berlusconi sudamericano, succeduto democraticamente a Michelle Bachelet, la presidentessa che ha definitivamente stabilizzato il paese dopo i processi a Pinochet, piazzandolo tra le economie più solide del Sud America, dopo il Brasile e ben prima della Argentina, traballante di scandali e delle tumultuose Venezuela e Bolivia, incerte tra caudilli e dittatori come Chavez e Morales.
Oggi il Cile sta affacciato su quel buco dal quale è salito con la prima sonda 15 giorni dopo il crollo un biglietto con sopra scritto: “Estamos bien en el refugio. Los 33.”
Salgono quotidianamente messaggi duri ma pieni di speranza: “Cara moglie, non so per quale ragione non sono ancora impazzito, dormiamo sul fango, qui intorno è tutto bagnato, non abbiamo magliette, solo pantaloni e stivali, è tutto buio, ho la gastrite, siano stati quindici giorni mangiando un cucchiaio di tonno ogni 48 ore, ma resistiamo, ce la faremo…..”.
E’ un’altra battaglia per la sopravvivenza che sposta lo sguardo del mondo sul Cile, trentasette anni dopo Allende assediato e il fiume di Santiago, il rio Mapocho, rosso di sangue degli assassinati del golpe e trentotto anni dopo il miracolo dei sopravvissuti delle Ande. Immagini della fine del mondo.