ROMA – Non hanno partecipato attivamente agli scontri, ma i loro volti, nelle proteste che stanno attraversando il Maghreb e il Nord Africa, sono sempre più presenti. Le donne arabe, spesso sottomesse, costrette a sposare uomini che non amano, private dei loro diritti fondamentali e in molte società vere e proprie cittadine di serie B, questa volta non hanno voluto mancare all’appuntamento della storia.
Tunisia. Il simbolo della rivolta che ha portato, il 14 gennaio, alle dimissioni del presidente Zine el Abidine Ben Ali, è un uomo, il fruttivendolo Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco il 17 gennaio. Ma per le strade di Tunisi si sono viste molte donne pronte a contestare il regime autoritario in atto da 23 anni e ora in cerca di un nuovo ruolo nel futuro politico del Paese nordafricano. Ledia Nebli, insegnante, è una delle tante donne che ha partecipato (insieme al marito e alle tre figlie) alle rivolte di gennaio. Stare dietro agli uomini durante le manifestazioni è normale, spiega, come partecipare con loro alla battaglia per la libertà. Un ruolo già avuto nella lotta per l’indipendenza dalla Francia, come ricorda la giornalista Samar Neguida.
“Le donne in Tunisia hanno maggiori diritti di tutte le altre nella regione araba e nell’intero Medioriente -spiega Ledia Nebli- Possono votare, guidare l’auto, hanno diritti in parlamento, dove oltre il 25 per cento dei deputati è donna”. Ora, però, le donne stanno cercando di ritagliarsi un luoro nel prossimo governo e alcune temono un riaffermarsi del partito islamico Ennadha, un tempo fuorilegge. Il suo leader, Rachid Ghanouchi, ha detto di non voler imporsi sul popolo tuinisino, ma donne come Faten Abdelkefi (33 anni, madre di 3 figli), una delle maggiori protagoniste della rivolta via Facebook contro Ben Ali, è pronta a manifestare contro l’esponente islamico. Abdelkefi ritiene che le tuinisine temono di perdere i loro diritti se Ennadha emergerà come principale forza politica. Ma altre, come Neguida, fanno notare come i diritti delle donne vengano usati per dare legittimità al regime laico, ma non democratico, di Ben Ali.
In ogni modo, le elezioni politiche saranno fra sei mesi e le donne non hanno ancora espresso indicazioni di voto. Secondo la blogger Abdelkefi, le donne sono così preoccupate dal possibile ritorno degli islamisti che pongono poca attenzione al loro posto nell’attuale governo, dove solo 23 ministri sono donne e dove nessuno dei nuovi 24 governatori è donna. L’idea della Abdelkefi è che un gruppo di lungo data, l’Associazione tunisina di donne democratiche, potrebbe diventare un partito politico.
Egitto. Le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak hanno rappresentato una vittoria per i manifestanti pro-democrazia, ma anche per le donne, che nella fine del governo in carica da 30 anni vedono la loro personale rivoluzione sociale. Rimasta per 18 giorni e 18 notti accampata in piazza Tahrir, la scrittrice e attivista Azza Kamel celebra oggi la caduta di un leader che, dice, ha oppresso la nazione troppo a lungo. “La rivoluzione ci ha cambiato”, dice Kamel, 50 anni, che ogni giorno lasciava la piazza solo per poche ore per recuperare cibo per le altre manifestanti. Un cambiamento sociale che, dice, si vede nel fatto che “gli uomini non toccavano le donne” durante i sit-in di protesta e “ci chiedevano scusa ogni volta che si scontravano con una donna”. Un dato che in Egitto ha un significato rivoluzionario, considerando che uno studio condotto nel 2008 dal Centro egiziano per i diritti delle donne ha mostrato che qui più di quattro donne su cinque ha subito un’aggressione sessuale almeno una volta. Ed è per questo che, nei giorni della rivolta iniziata il 25 gennaio e terminata l’11 febbraio, a tutte le donne interessate a partecipare alla protesta era stata inviata una e-mail nella quale si diceva loro di indossare due paia di pantaloni, nessun indumento con zip e un doppio velo in testa.
Precauzioni pratiche basate sull’esperienza e non sulla paranoia, dicono le attiviste, in un Paese dove la polizia ha più volte usato la violenza sessuale come mezzo di intimidazione. Atteggiamenti che spesso hanno costretto le donne nelle loro case e lontano dalla scena politica. Fino ad ora. “Credo realmente che questa rivoluzione ci abbia cambiato. Le persone stanno agendo diversamente rispetto all’altro”, insiste la Kamel. “Un popolo oppresso cerca qualcun altro da opprimere a sua volta. Ora, per la prima volta in 40 anni, il popolo sta assaporando la libertà. E gli uomini non opportunano più le donne”, aggiunge.
E mentre la richiesta di dimissioni per Mubarak attraversava tutte le classe sociali, le religioni e i generi, è stata l’esperienza di libertà delle donne in piazza a spingere amiche, sorelle e madri a tornare e ad alimentare la protesta, spiega Mozn Hassan, direttrice del Centro di studi femministi Nasra al Cairo. “Qui (in piazza Tahrir, ndr) nessuno ti vedeva come donna, nessuno ti vedeva come uomo. Tutti eravamo uniti nel nostro desiderio di democrazia e libertà”, ha spiegato. Ed è per questo che migliaia di donne si sono riversate, ogni giorno, nella piazza simbolo della rivolta.
Sono venute da sole, con le loro amiche, colleghe, mariti e figli, studentesse universitarie, insegnanti, dottoresse e casalinghe, musulmane, vesiste con l’hijab e senza, e cristiane. Hanno mostrato le loro carte di identità e portato cibo ai manifestanti, curato chi ne aveva bisogno e cantato per svegliare la rivolta, diffuso notizie dalla piazza su Facebook e Twitter. E se nelle precedenti proteste egiziane la percentuale della partecipazione femminile si fermava al massimo al 10 per cento, in piazza Tahrir il livello ha raggiunto il 40-50 per cento. Ci sono state donne come Mai Shoukoury, 30 anni, ricercatrice presso un think tank al Cairo, che dice di non aver mai votato prima, ma di aver aderito alla protesta di piazza Tahrir. E Doaa, 23 anni, studentessa di economia, che il giorno in cui gli scontri tra manifestanti pro e contro Mubarak hanno causato oltre 100 morti era dietro le barricate.