DAMASCO – Non ha il passaporto siriano ma della Siria si sente parte integrante padre Paolo Dall’Oglio, gesuita italiano di 57 anni, più di metà dei quali passati nel deserto a nord di Damasco. Su di lui ora pesa un decreto di espulsione emesso dalle autorità locali, che lo considerano di fatto colpevole di essersi impegnato da mesi negli sforzi di mediazione, in un Paese scosso da proteste anti-regime e dalla conseguente repressione che, secondo datate cifre dell’Onu, ha causato la morte di più di 3.500 persone.
“Sulla decisione di espellermi c’è stata una fuga di notizie di cui non sono responsabile e che mi rammarica molto perché toglie spazio alla mediazione”, dichiara padre Paolo raggiunto telefonicamente dall’ANSA nel remoto convento di San Mosé l’Abissino (Mar Musa al Habashi), dove da anni opera la comunità di rito siriaco da lui fondata.
Da qui il monaco gesuita lancia un appello al neoministro della cooperazione italiano, Andrea Riccardi, già fondatore della Comunità di Sant’Egidio. “In Siria la situazione può esser venti volte più cruenta di adesso, bisogna lavorare adesso per evitare il peggio”, ha detto, auspicando che Riccardi possa “svolgere un ruolo di punta nel panorama europeo, soprattutto per creare quelle condizioni che permettano un’uscita della generazione consumata (i vertici del regime, ndr) senza per questo cadere in una democrazia di fatto inefficace e non garante delle minoranze del Paese”.
Il riferimento per Padre Paolo non è solo alle diverse chiese cristiane ma anche a tutte le altre minoranze etniche, ideologiche e confessionali. A temere più di tutti la caduta del regime sembrano oggi gli alawiti, branca dello sciismo a cui appartiene anche la famiglia presidenziale degli al-Assad e da alcuni ambienti sunniti – la maggioranza in Siria – identificata con la dittatura baathista al potere da mezzo secolo.
Per padre Paolo ”l’Europa e la Turchia devo lavorare su tutti i registri. Il Vaticano solo sul registro del negoziato, mentre la Russia, oltre a continuare a custodire la sua amicizia con la Siria, deve pensare anche ai siriani ortodossi e al loro destino”.
Nei mesi scorsi padre Paolo, dai primi anni ’80 in Siria e artefice della rinascita dell’antico monastero di Mar Musa, aveva redatto e diffuso un testo per la riconciliazione nazionale in cui proponeva, tra l’altro, l’approdo a un sistema politico democratico basato sul consenso tra le varie comunità siriane.
Il bisogno di riconciliazione era stato ribadito nel suo recente Appello di Natale. “In quell’appello ho detto tutto quello che avevo da dire”, afferma. “Sono dieci anni che dico che bisogna fare il possibile per evitare il bagno di sangue”.
Per il monaco, nato a Roma e gesuita dal 1957, c’è comunque ancora speranza: “Occorre attivare tutti i canali di negoziato possibili, e questo in ogni fase del contrasto in corso, perché c’è sempre qualcosa da negoziare”. La Lega Araba ha imposto sanzioni alla Siria perché Damasco non ha di fatto accettato il piano arabo, che prevedeva tra l’altro, l’invio nel Paese di una missione di osservatori arabi. “Questa proposta andava nella direzione giusta”, commenta.
“Purtroppo non s’è trovato accordo e questo è molto doloroso perché il negoziato è così paralizzato. E ciò significa più morti, più estremismo, più gente arrabbiata, più disperati”. Per Padre Paolo “di fronte c’è un’occasione per cambiare metodo: si può fare della Siria il luogo dove i problemi si affrontano e non dove si incancreniscono, perché la questione confessionale non è solo un problema siriano ma di molti altri Paesi arabi. Se non troviamo soluzioni oggi in Siria, non le troveremo altrove. E’ interesse di tutti”.
“Poi ciascuno ha la sua responsabilità”, prosegue il padre gesuita. “Io sono monaco e devo parlare di mediazione. Purtroppo ci sono dei settori ecclesiastici che usano le parole del Vangelo per giustificare l’ingiustizia. Salvo poi voltar gabbana al momento giusto”. Nonostante la decisione delle autorità di Damasco nei suoi confronti sia stata già presa, il monaco non si arrende e, in cambio della sua permanenza in Siria, proporrà, “tramite il vescovo, di interrompere la partecipazione alla discussione politica. Perché i miei doveri ecclesiali sono più importanti ma anche perché evidentemente non è apprezzata”.