Sul lungo periodo il debito pubblico ellenico dovrebbe ridursi, secondo le direttive Ue, al 60 per cento del Pil. Facendo alcune ipotesi di crescita del Pil e di riduzione degli interessi sul debito molto ottimistiche (soprattutto considerato che i piani di “risanamento” deprimono l’economia), è stato calcolato che la Grecia, per raggiungere l’obiettivo del 60 per cento, dovrebbe conseguire un avanzo primario (differenza fra entrate e spesa pubblica prima degli interessi) del 6 per cento all’anno per 30 anni! Se qualcuno crede ancora alle favole a lieto fine, ebbene allora può bersi anche questa. Ma basta un pizzico di realismo per comprendere che una simile performance non è alla portata della Grecia e implica un contenimento progressivo e duraturo della spesa pubblica che difficilmente può essere fatto ingoiare ai cittadini di quel paese. E poi, quanto costerebbe in termini di mancato sviluppo una simile politica di restrizioni?
Tutto ciò conferma che la Grecia si trova a fronteggiare una crisi di solvibilità piuttosto che di liquidità. Mentre per quest’ultima un programma di aiuti finanziari da parte dei partner dell’eurozona è una soluzione adeguata, per la prima prima, non essendo ipotizzabile un soccorso prolungato per un tempo illimitato, occorre necessariamente prendere in considerazione una ristrutturazione del debito. Alla fin fine nel braccio di ferro tra alcuni governi, Germania in testa, e Bce saranno quindi i primi ad averla vinta, a meno di miracoli oggi inimmaginabili. Di più, probabilmente un allungamento delle scadenze dei titoli non sarà sufficiente e si dovrà ricorrere anche a una riduzione degli interessi e fors’anche a un “taglio di capelli”. Se la ristrutturazione è l’inevitabile sbocco per il debito greco, c’è da chiedersi che senso abbia prolungare l’agonia con iniezioni finanziarie assai costose e per nulla risolutive che poco servono alla Grecia e all’euro e aiutano solo quegli istituti di credito che hanno distribuito paccate di Cds (credit default swap), circa 77 miliardi a quanto pare, e ora sperano intensamente che il fallimento greco avvenga dopo la scadenza dei suddetti Cds per non essere costretti a pagare queste “assicurazioni sul default”. Per loro, quindi, la parola d’ordine è: “Prendiamo tempo”.
Poche parole merita l’ipotesi estrema, mormorata qua e là ma di cui però pochi si assumono pubblicamente la paternità, cioè quella di un’uscita della Grecia dall’euro per ritornare alla dracma. Trattasi di un’eventualità catastrofica (per i greci ma anche per gli altri membri dell’eurozona): fughe di capitali; una potente svalutazione della valuta greca che colpirebbe i detentori stranieri di debito pubblico ellenico non meno di un taglio netto del valore dei titoli rimanendo all’interno dell’euro; problemi tecnico-logistici per distribuire tempestivamente il nuovo conio; difficoltà per i commerci e gli investimenti; speculazione in cerca di nuove, deboli vittime e quindi rischio che l’uscita della Grecia rappresenti l’inizio della fine dell’euro per tutti. Speriamo che la tattica del rinvio e del tappare i buchi senza affrontare di petto i problemi degli squilibri strutturali dei conti pubblici greci (ma anche portoghesi, irlandesi e magari anche spagnoli) non ci porti, alla lunga, su questa china pericolosissima.
