Versando una percentuale della retribuzione lorda a questi fondi, i lavoratori al momento di lasciare la vita attiva si ritrovano una rendita vitalizia, in pratica una seconda tranche di pensione accanto a quella della previdenza generale, tale da innalzare il “tasso di sostituzione” di una percentuale compresa fra il 10 e il 30 per cento, portandolo quindi ai livelli del vecchio sistema retributivo o persino migliori. Il pilastro viene inoltre “irrobustito” grazie ad agevolazioni fiscali, a contribuzioni su base contrattuale da parte dei datori di lavoro e alla destinazione ai fondi previdenziali integrativi dell’ex trattamento di fine rapporto (obbligatoria solo per i nuovi assunti).
Forse perché i benefici fiscali sulle somme destinate ai fondi e sulle future rendite non sono adeguati, o perché l’andamento dei mercati finanziari ha consigliato molti lavoratori a tenersi alla larga da strumenti che in quei mercati necessariamente operano, o ancora forse perché fra i precari, nelle aziende più piccole o nelle categorie meno numerose lo strumento non ha avuto successo, oppure anche perché non è stata data sufficiente divulgazione circa la sua utilità o i costi dei fondi sono risultati troppo elevati, fatto sta che a oggi, dopo una dozzina d’anni, solo il 22-25 per cento (a seconda delle fonti) dei lavoratori aderisce a un fondo integrativo e in molti casi lo fa con somme inadeguate a garantire una rendita significativa.
E’ da questa mancata partecipazione ai fondi che per molti futuri pensionati si delinea all’orizzonte una situazione di disagio o di vera e propria povertà. E’ da qui, dal rilancio dello strumento del fondo, che occorre ripartire. Si tratta di renderlo più appetibile, migliorando il trattamento fiscale, e anche più alla portata del lavoro diffuso e/o precario. In quest’ultima direzione appare molto sensata la proposta (vedi ad esempio il “Corriere della sera” del 7/6/2011) di creare un fondo integrativo pubblico gestito dallo stesso Inps, ben separato dal calderone della previdenza generale, con i criteri propri di un fondo e, possibilmente, con i costi competitivi che sarebbe possibile ottenere tramite la struttura di raccolta e di gestione di un colosso quale l’Istituto di via Ciro il Grande all’Eur. Fermo restando che questo fondo dovrebbe aggiungersi a quelli di categoria (sono decine) o aperti (sono centinaia) già esistenti e confrontarsi con loro sulla base dei rendimenti che ciascuno di essi riesce a ottenere.
Terzo pilastro. E quello dei cosiddetti Fip o Pip, piani previdenziali privati offerti dalle compagnie assicurative per integrare il rendimento dei primi due pilastri. Queste forme previdenziali non hanno avuto il boom che qualcuno si attendeva (le adesioni riguardano tra l’uno e il due per cento dei potenziali “clienti”), anche a causa di costi decisamente superiori a quelli dei fondi di categoria (già costosi) e quindi di rendimenti per nulla competitivi. Meglio concentrarsi sul secondo pilastro e lasciare le assicurazioni previdenziali ai soli percettori dei redditi più elevati
