ROMA – C’è in Italia un’industria che ha un valore che superiore al 10% del Pil, un tasso doppio della media mondiale: è l’industria, atipica certo, del riciclaggio. Dieci per cento del Pil nazionale vuol dire 160 miliardi di euro ogni anno, un stima doppia rispetto alla media mondiale. Il dato non lo fornisce l’antimafia o la guardia di finanza, ma la Banca d’Italia, la banca delle banche, attraverso le parole del vicedirettore generale Anna Maria Tarantola. Oggi i criminali arrivano «a sedere nei consigli di amministrazione; contribuiscono all’assunzione di decisioni economiche, sociali e politiche rilevanti». Nella sua definizione il riciclaggio rappresenta un «ponte» tra criminalità e società civile che offre ai malviventi «gli strumenti per essere accolti e integrati nel sistema», anziché «banditi» dalla società e, come si suol dire, se lo dice il vicedirettore generale della Banca d’Italia, c’è da crederle. Chi meglio di lei può conoscere e capire i flussi di denaro che si muovono nel nostro paese? E se la Banca d’Italia lancia l’allarme la cosiddetta società civile, e il mondo delle professioni in particolare, fa però finta di non sentire.
«Il denaro sporco – spiega la Tarantola nel suo intervento presso la Scuola superiore dell’economia e delle finanze – è di per sé “poco liquido”, spendibile senza difficoltà solo all’interno del circuito illegale. Ha dunque un potere d’acquisto solo “potenziale” che il riciclaggio trasforma in effettivo». Spiega: per ripulire i propri capitali illeciti il criminale ha bisogno di avvalersi «di operatori economici operanti nei circuiti legali: banche, finanziarie, professionisti». Ha il potere di «coinvolgere e corrompere». Elevato è il «rischio di cattura» nei confronti di quegli operatori «inizialmente inconsapevoli della provenienza oscura dei fondi». Nella visione della Banca d’Italia, come già denunciato dal governatore Draghi, questi enormi flussi di denaro illecito assumono una certa rilevanza anche sul piano macroeconomico: possono generare gravi distorsioni nell’economia legale, minandone la stabilità. Vanno contrastati. E’ «una sfida continua per il paese». Le norme non bastano. Tutti devono essere coinvolti.
Nonostante l’allarme c’è però chi fa orecchie da mercante, e sono i professionisti. A tre anni dall’introduzione nell’ordinamento nazionale della direttiva antiriciclaggio, i dati ufficiali dicono che le segnalazioni di operazioni sospette sono triplicate, passando da 12.500 del 2007 a oltre 37 mila nel 2010, ma arrivano soprattutto dagli intermediari bancari e finanziari e dalle Poste e questo «non può considerarsi soddisfacente». Dai professionisti invece, nel 2010 sono giunte solo 223 segnalazioni (erano 136 nel 2009e 173 nel 2008). Di queste, un terzo dai dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, circa un quinto dai notai. Troppo poco, anche in considerazione della massa enorme di denaro sporco in circolazione che per forza di cose deve passare in misura decisamente più grande tra le mani di queste categorie. Le segnalazioni hanno prodotto risultati investigativi che Tarantola definisce «rilevanti». Solo con riferimento al 2010 le anticipazioni fornite dalla Guardia di Finanza dicono che nell’anno sono state 4700 le segnalazioni sfociate in procedimenti penali. Intensa anche l’azione della Vigilanza che, sempre lo scorso anno, ha effettuato 175 ispezioni e 113 verifiche presso dipendenze bancarie. All’autorità giudiziaria sono state inviate 63 segnalazioni riferite a violazioni della normativa antiriciclaggio. Le sanzioni pecuniarie hanno colpito 43 intermediari e sono state pari a 4,1 milioni di euro (1,6 nel 2009). Dati incoraggianti, soprattutto se si tiene conto del trend di crescita in notevole accelerazione: +16% nel 2008, +44% nel 2009, +77% nel 2010.
Ma dati che somigliano ad una goccia nell’oceano se accostati al valore del mercato del riciclaggio stimato dalla più autorevole delle fonti: la Banca d’Italia. E palazzo Koch, consapevole dell’enorme lavoro che c’è ancora da fare dice, sempre attraverso la Tarantola, che “l’attività di monitoraggio e intervento ha portato nel tempo a risultati incoraggianti. E’ migliorata la conformità alle prescrizioni normative”. L’antiriciclaggio, aggiunge, “deve diventare cultura aziendale diffusa e condivisa ad ogni livello”. E “ciò richiede l’impegno di tutti, dagli organi di vertice fino alle strutture operative periferiche, secondo la posizione organizzativa e il ruolo ricoperti”. Le norme, per quanto “severe, chiare, incisive”, afferma ancora il vice direttore della Banca d’Italia, “sono necessarie, ma non sono sufficienti perché la criminalità cerca costantemente nuove strade per riciclare i proventi della propria attività illecita sfruttando le opportunità consentite dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica e finanziaria. Ciò richiede, da parte di tutte gli attori coinvolti, nazionali e internazionali, una elevata capacità di percepire ed analizzare strumenti, modalità e circuiti innovativi utilizzati dalla criminalità e di attivare un ampio e tempestivo scambio di informazioni. E’ su questa linea”, conclude, “che si sta muovendo, non senza difficoltà, l’azione della Banca d’Italia – nella funzione di vigilanza e in quella, autonoma e indipendente di Uif – per la tutela dell’integrità del sistema finanziario”.
Tocca quindi al legislatore e, una volta tanto, anche ai singoli professionisti che operano nel campo, raccogliere l’allarme e la sfida che lancia Banca d’Italia.