Nella seconda parte dell’inchiesta, il giornalista passa a occuparsi di casi specifici, in particolare degli impianti costruiti tra Campania e Molise: “La trincea è qui, a Porta Tammaro, lungo la statale per Benevento, una fettuccia dritta dritta, con il Matese che guarda bonario da una parte e le alture che portano a Campobasso dall’altra. Se gli affari delle pale passano anche qui, allora è finita, allora sarà il caso, per l’intero Molise, di rassegnarsi: alle royalties che servono per fare campagna elettorale, agli impianti venduti a milioni di euro prima ancora di entrare in funzione, alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Tante torri devono ancora venir su, tanti progetti aspettano di essere approvati. Ma ancora prima che le pale spuntino, stanno già avvelenando la vita di questa gente, ne stanno rivoluzionando gli stili di vita, stanno suscitando gli appetiti più biechi”.
La trincea è qui, spiega Cirillo, “perché qui ci sono le rovine di Altilia, una magnificenza di resti sannitici e romani, e anche di caseggiati settecenteschi da togliere il respiro, che se solo si sapesse in giro per il mondo ci sarebbero già i giapponesi e gli americani a fare la fila. Perché qui, nel Terzo secolo Avanti Cristo, il console Lucio Papirio Cursore vinse una battaglia campale contro le popolazioni locale, una battaglia con 7.400 morti, e conquistò definitivamente queste terre per Roma. La trincea è qui, perché da queste colonne preziose, da questo teatro unico al mondo – unico perché prevede anche un’uscita speciale all’esterno per il pubblico – dovrebbe essere goduta presto la vista di sedici pale eoliche, a una distanza di nove-dieci chilometri, sulle colline di San Giuliano del Sannio e Cercepiccola, comuni sperduti eppure bellissimi anche loro, puliti, ricchi di storia, ricchi ancora di vita”.
Il caso emblematico è, secondo Cirillo, quello di Sepino, paese in provincia di Campobasso: “Sepino è la bandiera di questa battaglia nonostante non sia proprio quella messa peggio. Ma i casus belli, si sa, nascono per caso, sono spesso fatti di simboli, di suggestioni, di coincidenze. E allora anche il solo fatto che le pale siano visibili lassù, anche a una distanza non proprio incombente, viene considerato uno scempio. Non da una, ma da novantanove associazioni ambientaliste raggruppate in una Rete e decise a vendere cara la pelle, anzi la vista dalle rovine di Sepino. Sepino non è quella messa peggio, perché è tutto il Molise, e in maniera molto più traumatica e molto più visibile, che sta facendo i conti con questa nuova follia. Innanzitutto Pietrabbondante, in provincia di Isernia, dove a un paio di chilometri dal teatro sannitico meglio conservato al mondo, dovrebbero spuntare una decina di pale. Sì, proprio dove si riunivano i Marsi, i Peligni, gli Irpini e i Sanniti stessi, una volta l’anno, per eleggere il capo di quella federazione ante litteram delle popolazioni del nostro Sud. E dopo Pietrabbondante, Frosolone -sempre in provincia di Isernia- e poi via via verso il mare, dove le pale ci sono già, dove hanno bussato e gli è stato subito aperto, a Lucito, a San Martino in Pensilis, a Ururi. Pale, pale, e ancora pale, che di notte fanno certe lucine rosse da mettere veramente paura. Per avere un’idea di quello che sta accadendo bisogna considerare che il Molise – terra bellissima e incontaminata prima di questo veleno iniettato lentamente e senza scrupoli – ha 4.400 chilometri quadrati di territorio e 136 comuni. Ebbene, 90 di questi comuni sono toccati da progetti di pale eoliche realizzate o da realizzare, e gli altri 40 c’è da temere che presto lo saranno”.
E nel Molisano è scoppiata la polemica, che si è spostata sul piano politico, come racconta Cirillo: “E’ un assalto. Secondo il consigliere regionale del pd Michele Petraroia, un po’ la guida spirituale della Rete ambientalista nata attorno a Sepino, «sono già 436 le torri installate e addirittura potrebbe essere anche fra le 2.500 e le 5.000 quelle richieste». I dati che offre l’assessore regionale all’Ambiente Salvatore Muccilli si discostano, ma non di moltissimo: a tre mesi fa, 373 torri eoliche installate, 155 che hanno già ricevuto il placet del suo assessorato, quindi a buon punto nell’iter, e 1.340 domande da esaminare («Ma, a occhio, moltissime le bocceremo»). Mettono paura anche altri calcoli. Secondo Petraroia, già oggi «con la sola energia eolica delle torri installate il Molise produce il 72 per cento dell’energia di cui ha bisogno». Se alle pale «aggiungiamo il termoelettrico, l’idroelettrico e il fotovoltaico, siamo al 110 per cento». Quindi, di cos’altro avrebbe bisogno questa regione? Ma se addirittura proiettiamo le pale richieste, sempre secondo Petraroia, «il Molise arriverebbe a produrre quattro volte l’energia di cui ha bisogno». Per farne che? Per immetterla dove, se la rete non è neanche pronta a convogliarla? Lo stesso assessore Muccilli, che è un uomo pratico, un imprenditore prestato alla politica, non si nasconde dietro un dito: «Dobbiamo aggiornare il piano energetico regionale che è vecchissimo, dobbiamo recepire le linee guida del governo pubblicate un mese fa sulla Gazzetta, dobbiamo stabilire dei limiti alla compensazioni che le aziende offrono ai comuni. Eh sì, non vorrei che qualcuno pensasse di pagarci la campagna elettorale con quei soldi…». Muccilli è arrivato al punto. Perché l’eolico funziona così. Bussano scatenati alle porte di questi piccoli comuni gli “sviluppatori”, questi mezzani delle pale, che a nome di piccole, piccolissime società, “esseerreelle” con diecimila euro di capitale, vanno in cerca dei terreni e contrattano l’autorizzazione. Al sindaco offrono «ristori ambientali», cioè compensazioni in denaro, cioè royalties, intorno ai 90-100mila euro l’anno , con qualche piccola percentuale sull’energia che verrà prodotta. Anche a non pensar male, sono soldi preziosi per piccole amministrazioni allo stremo. E non tutti sono come il sindaco di Sepino, Antonio Mosca che si vanta di essere un ex democristiano, ma che soprattutto proclama: «Io non sono contro l’eolico selvaggio, sono proprio contro l’eolico. Io, il mio territorio non lo svendo e neppure lo vendo»”.