ROMA – Se vi capita di postare un commento su Youtube, o di caricare voi stessi un video, troverete l’invito a dichiararvi con il vostro nome. Un vivo consiglio a non utilizzare “nickname” e a collegare il proprio profilo nel social network Google+. Potete scegliere di non curarvene, ma dovrete dare una giustificazione rispondendo a un questionario con sei domande. Google, ma anche gli altri grandi gestori social hanno avviato una campagna per scoraggiare gli utenti dal trincerarsi dietro pseudonimi. Un passo necessario soprattutto per consentire discussioni, diciamo così, più urbane e mettere in quarantena gli estensori di contenuti altamente diffamatori, insulti, incitazioni all’odio, palesi e odiose discriminazioni via web.
Inutile enfatizzare oltremodo, ma il passaggio in atto è quasi epocale. L’anonimato era parte integrante, scontata nei vari forum, chat ecc.. I social network, però, stanno cambiando e il relativo boom ne ha accresciuto enormemente la presenza nella società reale: ora funzionano come centrali parallele di informazione e servizi. Nel Giappone sconvolto dal terremoto Facebook è stato più utile di qualsiasi unità di crisi nella raccolta e distribuzione delle informazioni. Come in ogni trasformazione ci sono nuovi protagonisti e vittime designate: i famigerati “troll” sembrano avere i giorni contati. Son loro i responsabili delle varie bacheche degli orrori, nascosti dietro improbabili Nick75 o Pluto69 vomitano l’irriferibile, l’odioso, il malvagio.
Con Google, anche Twitter ha annunciato modifiche per arginare la marea di commenti trash. I rischi ci sono. Intanto un problema di censura o di limitazione nell’offerta dei contenuti. Poi, almeno a dar retta ai tribunali inglesi, un’impennata di denunce e battaglie legali seguite alla pubblicazione di commenti considerati diffamatori. Negli Stati Uniti, anche per l’imminenza delle elezioni politiche e il surriscaldamento della campagna elettorale, si sta discutendo il modo di sradicare il “bullismo” on line. Una proposta di legge è stata presentata nello Stato di New York. L’obiettivo è costringere i gestori, i server alla rimozione forzata dei commenti ingiuriosi quando non accompagnati da un segno identificativo certo, il nome, l’indirizzo Internet ecc.
Nel frattempo possiamo solo constatare quanto sia diffuso ricorrere a nickname. Il Sole 24 Ore riporta una stima rappresentativa del fenomeno citando la piattaforma Disqus, che abilita gli interventi su blog e siti online: “Tra i suoi utenti il 61% delle opinioni valutate in modo positivo (ad esempio, con i voti “mi piace”) sono espresse da persone che usano un nickname. Il 34%, invece, viene pubblicato da anonimi e il 4% è associato con identità collegate ai social network, come nel caso dei profili di Facebook”.