PARIGI – “Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci”. Nel dibattito intorno all’utilità e all’opportunità, ma soprattutto sul diritto-dovere e sul rischio di pubblicare e ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, si inserisce con queste parole Ayaan Hirsi Ali, l’attivista somala autrice del film “Submission” per cui il regista olandese Theo Van Gogh venne ucciso.
La scrittrice, che oggi vive negli Usa, sostiene così che la libertà vada difesa non tanto e non solo per aderire all’inflazionata citazione volteriana secondo cui bisogna essere pronti a morire per difendere il diritto di tutti di dire quel che pensano, anche se non siamo d’accordo con loro, ma anche per un fatto di utilità: perché se arretreremo nella difesa della libertà, cedendo per paura mascherata da politicamente corretto, non faremo altro che infondere coraggio in chi quella libertà vorrebbe limitare.
E di limitazioni della libertà Ayaan Hirsi Ali è, per così dire, un’esperta, essendo figlia di uno dei leader delle fazioni somale in lotta nella guerra civile scoppiata nel 1991 ed essendosi lei stessa liberata fuggendo durante lo scalo del volo che la stava portando verso il suo matrimonio combinato.
Molto più sfumate, per alcuni versi paradossalmente ma ad una lettura più approfondita forse comprensibilmente, invece le posizioni di diversi intellettuali, giornalisti, vignettisti e testate occidentali che, in teoria, di limitazioni della libertà esperienza diretta non hanno. Si va dalla sensibilità e prudenza dei media del mondo anglosassone, attenti a non colpire suscettibilità religiose e soprattutto osservanti della nuova “religione” del politicamente corretto fino a un più o meno esplicito “se la sono andata a cercare”. Certo nessuno lo dice o lo pensa oggi il “se lo sono andati a cercare” di Charlie Hebdo e simili, ma a suo tempo fu detto, sussurrato, suggerito, pronunciato.
Come ricorda Pierluigi Battista sul Corriere della Sera molti, compresi alcuni che oggi rivendicano di “essere Charlie” volendo testimoniare la loro solidarietà con le vittime della strage di Parigi e la loro “fede” nella libertà d’espressione, avevano all’indomani della pubblicazione delle prime vignette contestate, con oggetto cioè Maometto e l’Islam, preso da queste e dai giornali che le pubblicavano le distanze.
All’epoca matite come quella di Vauro (“Quelle vignette sono propaganda bellica, la libertà d’espressione non c’entra niente”) ed Ellekappa (“offendono il sentimento religioso dei musulmani”), con parole diverse, affermarono che quel tipo di vignette avrebbero offeso l’Islam e provocato reazioni violente. Giornalisti come Sandro Ruotolo e personaggi come Giulietto Chiesa da quei disegni presero nettamente le distanze, sostenendo che non avevano nulla a che fare con la libertà d’espressione e stampa. “La libertà di satira non c’entra”, commentò Ruotolo; “Pubblicare quelle vignette a difesa della libertà d’espressione la considero la considero una provocazione”, rincarò Chiesa.
Ovviamente nessuno di loro giustifica oggi e mai avrebbe giustificato la violenza e l’omicidio ma furono, per così dire, i precursori di un dibattito che dopo i fatti di mercoledì scorso è tornato d’attualità, rivelando le diverse sensibilità questa volta non solo dei singoli ma di interi paesi e più in generale di culture. E non è un caso in questo contesto che il direttore del Financial Times, pur in parte smentito dal suo stesso giornale, abbia bollato come “stupida” la scelta di pubblicare quelle vignette proprio all’indomani della strage dei fratelli Kaouchi. Appartiene infatti il Financial Times a quella fetta di mondo che è l’universo anglosassone che, dopo i fatti di Parigi, ha scelto di non pubblicare le vignette della rivista francese. Scelta frutto, soprattutto per i media americani, anche della volontà di tutelare la posizione dei molti inviati e cittadini a stelle e strisce presenti nel mondo arabo.
Scelta opposta invece per i media europei che le vignette, in nome del diritto alla libertà di parola, espressione e pensiero, hanno ripubblicato. Eccezion fatta per la Germania che ha tenuto una linea per così dire mediana, pubblicando le immagini sulla stampa locale ma non su quella nazionale. E scelta che anche per “noi” europei non è stata però automatica né tantomeno facile, come testimonia il racconto di Gian Arturo Ferrari, il direttore editoriale che curò la pubblicazione italiana dei Versetti Satanici di Salman Rushdie. Ferrari racconta come, nel 1989, nei giorni della fatwa lanciata contro lo scrittore da Khomeini, si sentì lasciato solo, con il governo che premeva per rimandare la pubblicazione e come, quando invece il romanzo pubblicato, fondamentalmente per ragioni di denaro e non di principio, si trovò isolato.