Rischiava di fallire una delle più grandi società di intermediazione della Borsa, la “Moore & Schley“. La società era indebitata e – come facevano tutti a quei tempi – usava come garanzia i titoli che possedeva in gran quantità della “Tennessee Coal, Iron and Railroad Company“, la “TC&I”. Carbone, ferro e ferrovia: esattamente l’epicentro della crisi del 1907. Le azioni della TC&I valevano molto meno: non erano più una garanzia valida. Se i creditori, quasi tutti banche, avessero bussato insieme alla porta della Moore & Schley la società avrebbe dovuto, per far cassa, vendere tutte le azioni della TC&I, facendone precipitare il valore. Risultato: sarebbe collassata la Moore & Schley causando una nuova ondata di panico sui mercati.
In contemporanea due fiduciarie, la Trust Company of America e la Lincoln Trust, rischiavano di non riaprire più il lunedì successivo perché “assaltate” dai clienti che rivolevano indietro i loro soldi.
Morgan decise di risolvere i due problemi insieme, Moore & Schley e fiduciarie. Convocò un’altra volta un summit d’emergenza nella sua biblioteca. Vi parteciparono un centinaio di persone, che J.P. divise in gruppi. I presidenti delle banche e delle camere di compensazione vennero radunati nella sala Est; i dirigenti delle società fiduciarie nella sala Ovest; Morgan e “l’unità di crisi” della Moore & Schley nell’ufficio del bibliotecario. J.P. propose di risolvere la situazione debitoria della Moore & Schley inglobandola nella sua U.S. Steel Corporation, un acquisizione che gli sarebbe costata 90 dollari ad azione. Ma Morgan non si sarebbe mosso se prima non fosse stata risolta la situazione delle fiduciarie. Si erano fatte le tre di notte. Raccontano Bruner & Carr:
“Mentre la discussione proseguiva, i banchieri realizzarono che Morgan li aveva chiusi nella biblioteca e che aveva nascosto la chiave per costringerli a trovare una soluzione, tattica per l’uso della quale era già stato noto in passato. […] I presidenti delle fiduciarie erano ancora restii ad agire, ma Morgan li informò che il loro rifiuto si sarebbe risolto nel collasso completo del sistema bancario. Con il suo considerevole ascendente, alle 4:45 circa persuase il leader ufficioso delle società fiduciarie a firmare l’accordo, cui seguirono tutti gli altri. Con l’assicurazione che la situazione si sarebbe risolta, Morgan permise quindi ai banchieri di toranre alle loro case.
Il pomeriggio e la sera di domenica, Morgan, Perkins, Baker e Stillman, insieme a Gary e a Henry Clay Frick della “U.S. Steel”, lavorarono nella biblioteca per definire il progetto di acquisizione della “TC&I” da parte della “U.S. Steel”. Domenica notte il progetto di acquisizione era pronto, ma rimaneva un ostacolo: il Presidente Theodore Roosevelt, che si era sempre battuto per imporre norme antitrust, al punto da rendere la rottura dei monopoli un punto focale del proprio mandato.
Frick e Gary viaggiarono tutta la notte in treno per arrivare alla Casa Bianca allo scopo di chiedere a Roosevelt di mettere da parte i princìpi dello Sherman Antitrust Act e permettere — prima dell’apertura dei mercati — un’enorme acquisizione da parte di una società già in possesso del 60% delle quote di mercato. Il segretario di Roosevelt si rifiutò di riceverli, ma Frick e Gary convinsero James Rudolph Garfield, il Segretario degli Interni, che permise loro di evitare il segretario e di rivolgersi direttamente al presidente. Meno di un’ora prima dell’apertura dei mercati, Roosevelt e il Segretario di Stato Elihu Root iniziarono ad esaminare la proposta di acquisizione e vennero a conoscenza del crollo potenziale che si sarebbe potuto verificare nel caso di mancata autorizzazione della fusione. Roosevelt si ammorbidì, e più tardi ricordò dell’incontro, “Era necessario che prendessi una decisione nell’istante prima dell’apertura della borsa, poiché la situazione a New York era tale che ogni ora poteva essere vitale. Credo che nessuno possa criticarmi onestamente per aver detto che non me la sono sentita di oppormi all’acquisizione in quelle circostanze”. Quando la notizia raggiunse New York, la fiducia spiccò il volo. Il “Commercial & Financial Chronicle” riportò che “il sollievo procurato da questa transazione fu istantaneo e di vasta portata”. La crisi finale del panico era stata evitata”.
Le conseguenze della crisi del 1907 si fecero sentire a lungo sull’economia americana e anche sulla politica. Che nel giro di sei anni approvò l’istituzione di una Banca centrale con il Federal Reserve Act, votato dal Congresso il 22 dicembre 1913 e firmato dal presidente Woodrow Wilson il giorno dopo.
Nell’immediato J.P. Morgan fu visto come un salvatore della patria (finanziaria). Ma era diventato troppo ricco, troppo potente, troppo decisivo. Nelle macerie della crisi, giganteggiava la sua figura di monopolista. Un money trust che fu messo sotto accusa dalla commissione speciale istituita dal deputato democratico Arsène Pujo. Morgan, ormai acciaccato, si sottopose a ripetuti interrogatori da parte dell’avvocato Samuel Untermyer, che dirigeva le indagini della commissione Pujo. Fra i due ci fu uno scambio di battute che è finito nei manuali di economia, una sintesi sulla natura del credito:
Untermyer: Il credito commerciale non è essenzialmente basato sul denaro e sulle proprietà?
Morgan: Assolutamente no. La prima cosa è la reputazione.
Untermyer: Prima del denaro e delle proprietà?
Morgan: Prima del denaro e di ogni altra cosa. Il denaro non può comprarla … Un uomo che non merita la mia fiducia non potrebbe ottenere da me alcun prestito nemmeno se portasse in garanzia tutti i titoli del mondo.
Morgan fu interrogato fino a gennaio 1913. Poi le sue condizioni di salute peggiorarono ancora. Cercò di rilassarsi con una crociera in Egitto, ma ottenne l’effetto opposto. Morì a Roma il 31 marzo 1913. I suoi ultimi giorni li ha raccontati Hans Tuzzi in “Morte di un magnate americano” (Skira, 170 pag., 15 euro), così riassunti da Fabio Isman sul Messaggero:
Dopo due settimane, si era accorto di star male: aveva voluto lasciare il Paese musulmano. A Roma, arriva il 10 marzo. Fino alla morte, il 31, il suo quartier generale sarà la suite reale, otto stanze da letto e 500 dollari al giorno, del Grande Albergo. Ora è il Grand Hotel Plaza. Al portone, facevano ressa antiquari e venditori: ma stavolta, nessuno gli era ammesso. Continui consulti medici di luminari americani e italiani. È fatale la «dispepsia psichica». In quel mese, riceveva in media 500 lettere al dì; alla morte, 4 mila di condoglianze, la Borsa di New York chiusa per due ore. Il ritorno, degno di un re. La funzione nella hall del Plaza; un picchetto militare; in treno a Parigi, poi a Le Havre; altri onori armati (scrive il Figaro: «Nessun americano ha ricevuto dall’Europa altrettanti segni di rispetto, nessuno avrebbe meritato simile omaggio»); il rimpatrio sul France, transatlantico peraltro suo. Un tappeto di cinquemila rose scarlatte nella Biblioteca alla 36esima strada.
Morì qualche mese prima della nascita della Federal Reserve, che avrebbe sostituito non sempre in maniera impeccabile Morgan e il suo ingombrante money trust nel ruolo di prestatore di ultima istanza e di stabilizzatore della finanza americana.