Stefano Rodotà (Cosenza, 30 maggio 1933) viene da una famiglia arbëreshë – minoranza italo-albanese – di San Benedetto Ullano (Cosenza). Giurista e professore di Diritto Civile a La Sapienza, entra a far parte del partito Radicale di Mario Pannunzio. Ma quando nel 1979 è eletto deputato, lo è da indipendente nelle file del Pci. Rimarrà alla Camera per quattro legislature. Nel 1987 è presidente della prima Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, nel 1992 vicepresidente della Camera. Sarà anche il primo presidente del Pds. Dal 1996 lega il suo nome alla parola privacy. È autore della prima legge sulla Privacy – croce dei siti internet e delizia degli avvocati – e dal 1997 primo garante della Privacy.
Curioso il fatto che nello stesso periodo sua figlia, la giornalista Maria Laura Rodota, curi una rubrica di gossip sul settimanale L’espresso. Se è vero che la legge scritta da Rodotà – con concetti come il diritto all’oblio – complica non poco la vita di chi fa informazione sul web, è vero anche che il giurista calabrese si è dimostrato molto sensibile ai problemi della libertà di internet, che più volte in Italia e all’estero è stata nel mirino di disegni di legge molto restrittivi. È questo aspetto che fa di Rodotà il (terzo) candidato al Quirinale preferito dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.
Un altro punto di contatto è l’instancabile attività di promotore dei diritti civili, tanto che c’è chi lo ha definito “una onlus democratica”. È stato uno degli autori della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. Il suo ultimo libro è Il diritto di avere diritti (Laterza). Animatore di molti referendum, è ricordato da chi ha vissuto con entusiasmo la “primavera arancione” (maggio-giugno 2011) per essere stato fra i promotori dei comitati referendari per l’acqua pubblica. Un profilo “di lotta e di cambiamento” nel quale molti avevano visto il nome che avrebbe fatto Pier Luigi Bersani come candidato pd al Quirinale. Invece ci ha pensato Grillo. Parte con i voti del Movimento 5 Stelle, quelli di Sel e di parte del Pd. Le sue probabilità crescono dalla quarta votazione in poi.
Franco Marini (San Pio delle Camere – L’Aquila, 9 aprile 1933) detto il Lupo Marsicano, data la sua natura di silenzioso e inesorabile tessitore di trame. “Predatore” di tutti gli avversari politici (quasi sempre compagni di partito o di coalizione). Disse di lui Giuseppe, l’autista di Carlo Donat Cattin – che lo cooptò nella sua corrente dc Forze Nuove – “Onorevole, Marini è uno che uccide col silenziatore”. Donat Cattin rispose: “Giuseppe, hai ragione”. In pubblico alterna il sigaro alla pipa, tenuti in bocca quasi sempre spenti. Un altro vezzo è il cappello da alpino, che indossa spesso: ha fatto la leva negli alpini. Sarebbe il primo sindacalista presidente della Repubblica e il primo ex dc eletto al Quirinale nella Seconda Repubblica (Scalfaro fu votato nel maggio 1992). Mai antiberlusconiano, del leader pdl disse: “Nel 1994 ha dimostrato grande coraggio. Pochi avrebbero avuto la forza di fare quello che fece lui allora”.
Il padre era un operaio della Snia Viscosa di Rieti: fece quattro figli, Franco era il primogenito. Aveva 11 anni quando rimase orfano di madre: il padre si risposò e fece altri tre figli. Fonti internet parlano di una sua laurea in giurisprudenza ad Harvard grazie a una borsa del ministero della Guerra: cosa tutta da verificare. Di certo c’è che si iscrisse alla Dc nel 1950 e in parallelo iniziò la sua carriera alla Cisl, fino a diventarne segretario nel 1985. Nel 1991 fu nominato da Andreotti ministro del Lavoro. Nel 1992 entra per la prima volta in Parlamento, primo degli eletti nella Dc. Mino Martinazzoli gli affida il compito di responsabile organizzativo: organizzerà il suo trasloco nel Ppi. Dove lo troviamo al fianco di tutti i segretari: lo stesso Martinazzoli, Rocco Buttiglione, Gerardo Bianco. Finché nel 1997 il segretario diventa lui. Nell’ottobre 1998 è indicato, insieme a D’Alema, come il regista occulto della caduta di Prodi. Lo ammetterà qualche tempo dopo, come scrisse Francesco Verderami sul Corriere della Sera:
«È vero, io e D’Alema complottammo contro Prodi. Solo che io non mi sono mai pentito, Massimo sì. Ha provato perfino a riappacificarsi con Romano. Chissà, forse sperava di salvare palazzo Chigi. Che volete farci, uno il coraggio o ce l’ha o non ce l’ha». Un paio di commensali interruppero di colpo la masticazione, altri gli riservarono uno sguardo interrogativo. Marini non si curò e proseguì, disse che con Prodi «da quando era successa quella cosa», dai tempi del complotto insomma, «non ci parliamo più»: «Sì, ci siamo incrociati alcune volte a Strasburgo, ma non ci siamo nemmeno salutati. È andata così».
Il piano sarebbe stato: D’Alema a Palazzo Chigi, Marini al Quirinale, o perlomeno uno del Ppi. La seconda parte non verrà mai realizzata. Carlo Azeglio Ciampi viene preferito al Lupo Marsicano o altri popolari ed eletto presidente alla prima votazione. È a questa vicenda che si riferisce Matteo Renzi quando parla di Marini come “il candidato del secolo scorso”, anche se si capisce meno quando lo accusa: “Distrusse un partito, il Ppi, per candidarsi al Quirinale”. Lasciò la segreteria a Pierluigi Castagnetti, ma il Ppi era ancora in piedi, anche se ai minimi storici. Poi confluirà nella Margherita, dove nel 2002 Marini viene nominato responsabile organizzativo.
Si opporrà ancora una volta a Romano Prodi nelle fasi gestatorie del Partito Democratico: è contrario alla fusione coi Ds. Tuttavia risulterà poi fra i fondatori del Pd. Eletto presidente del Senato nel 2006, dopo aver battuto per un’incollatura Giulio Andreotti, riceverà da Napolitano un mandato esplorativo nel gennaio 2008, quando proprio al Senato viene impallinato il secondo governo Prodi. Ritorna nell’ombra fino al 2013, quando ottiene una deroga alla lex rottamatoria del Pd per potersi ricandidare al Senato in Abruzzo. Renzi gli attribuisce le colpe della sconfitta del Pd in Abruzzo: “Gli elettori lo hanno bocciato”. Ma è un po’ complicato dirlo dato il sistema elettorale proporzionale. Stefania Pezzopane, unica senatrice abruzzese del pd, difende Marini: “Poteva prendersi il posto di capolista e sarebbe stato eletto. Ma ha voluto rispettare l’esito delle primarie e ha lasciato quel posto a me”. Alla prima votazione è stato il candidato ufficiale di Pd e Pdl, ma ha preso solo 521 consensi (ne servivano 672, centrosinistra senza Sel e centrodestra fanno 719).
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