Si interrompe quel flusso, la nave non arriva da Taranto a Genova, l’acciaio da lavorare non approda su quelle banchine, i laminatoi a freddo restano con la bocca spalancata a inghiottire nulla, qui e anche più su, a Novi Ligure, nell’altro stabilimento che aspetta il semi lavorato dalle Puglie, dove altri ottocento operai stanno come vedette a avvistare i treni o i tir che salgano l’ Appennino gelato di questo inizio inverno così freddo e così crudele.
Se si spezza la vena, il corpo della fabbrica muore, come il corpo umano se manca il sangue. Gli operai aspettano il nulla, le braccia conserte, la pazienza esaurita, le assemblee sempre più tese, i sindacalisti che ragionano nella tempesta tanto forte che così non l’avevano mai vista.
Qui rischia tutta l’immensa fabbrica, non un reparto, non una lavorazione.
Ora dentro alla fabbrica in piena mobilitazione cova non più la brace infernale dell’altoforno, ma la rabbia incandescente di quei millesettecentossessantacinque operai, che è pronta a esplodere, ma si trattiene da se stessa, aspettando quella nave.
E allora dalla fabbrica gli operai escono e puntano il cuore della città che non è lontana e si mettono in corteo: davanti i mezzi pesanti, le autogru, i messi semoventi che sono capaci di caricarsi a bordo i coils, quei giganteschi gomitoli di acciaio sbarcati dalle navi e da far inghiottire, appunto, nel ciclo freddo. E dietro loro le tute blu, dietro le bandiere della Fiom, rosse e piantate sui camion come l’Hister, appunto quel grande mezzo meccanico che conquista il centro la città e si piazza davanti alla Prefettura. Puntano la sua benna sul portone chiuso del palazzo di governo, come un ammonimento, un assedio.
Gli operai alla guida del gigante, che porta come fuscelli 35 tonnellate di acciaio, fanno cadere quella benna sull’asfalto nobile della strada centrale della ex Superba, con un rumore sordo che qui non rimbalza nel vuoto dell’inferno di fumo dell’accieria, ma nel ventre elegante dello shopping e fa tintinnare le vetrate dei negozi chic, che corrono a tirare giù le saracinesche davanti a questa occupazione che è diversa da ogni altra occupazione, perché la gente, anche quella che passa frettolosa e un po’ spaventata, è solidale con gli operai, sta con loro senza distinzione di classe, di ceto e di ruolo se ancora esistono. Se muore quella fabbrica, moriamo un po’ anche noi……
E così se il traffico si blocca intorno anche per ore, nessuno suona il clacson e urla contro i picchetti che fermano la circolazione e sembrano fermare il battito di cuore di Genova.
Gli operai aspettano di muoversi ancora, stanno come quegli indiani dei vecchi film western che appoggiavano l’orecchio al terreno per sentire se arrivava qualcuno. Nemici o magari rinforzi. Solo che ora le orecchie stanno appoggiate ai telefonini in linea con Roma, in linea con Taranto e il suono che si attende non è quello di una cavalcata roboante di zoccoli frenetici ma solo quello di due parole che potrebbero sembrare una preghiera esaudita: “Si lavora”.
Non si lavora: il decreto non è bastato, ora ne arriva un altro per superare l’ultimo verdetto dei giudici che bloccavano sotto sequestro i materiali semilavorati, miliardi di acciaio depositato nei magazzini di Taranto.
Il tam tam sul filo dei telefonini aveva fatto risuonare la minaccia di mille posti subito congelati a Genova e cinquecento a Novi: la conseguenza della decisione dalla gip di Taranto, Paola Tedesco, che aveva negato il dissequestro.
