A quattro mesi dalle elezioni comunali più attese della sua storia recente, Genova non vede profilarsi neppure una candidatura di qualsiasi colore e parte politica, mentre la città scivola inevitabilmente nella sua cronica recessione demografica, economica, istituzionale, perfino pscicologica.
Il sindaco uscente, l’”arancione” marchese Marco Doria, eletto cinque anni fa come indipendente Sel da una coalizione di centro sinistra, nella quale aveva sconfitto le candidate forti del Pd, Marta Vincenzi, ex prima cittadina uscente e Roberta Pinotti, oggi ministro della Difesa, ha lasciato trascorrere anche tutte le vacanze di Natale senza sciogliere il nodo della sua possibile ricandidatura.
Neppure sotto il camino della Befana, magari tra i pezzi di carbone, i partiti della sua quasi polverizzata maggioranza e, più in generale, i cittadini hanno trovato questa decisione che attendono da mesi. E così il marchese-sindaco tiene in scacco la città e non solo in questa snervante attesa, che potrebbe trovare una bella ambientazione romanzesca in qualche capolavoro di Garcia Marquez.
Lui sta nel suo palazzo fantastico, lungo la cosidetta “Strade dei Re”, via Garibaldi, come il mitico Aureliano Buendia stava nel suo rifugio para amazzonico, lui sta all’ombra del Gonfalone con la croce di san Giorgio, immutabile nel suo atteggiamento di aristocratico distacco. Non a caso è il discendente, seppure indiretto, del grande ammiraglio Andrea Doria, che fece potente la Superba trentadue generazioni fa. L’ammiraglio morì a più di 90 anni ed era un omone alto più di un metro e novanta, un monumento della storia genovese. Il Doria, che ha avuto un potere simile al suo sulla città, quasi sei secoli dopo, con lo stesso cognome e lo stesso stemma nobiliare, non ha certo nessuna di queste stature.
E oggi tutta la aristocrazia di questa tradizione si vede bene nell’atteggiamento del sindaco che non decide, o meglio non comunica di avere deciso cosa fare, bloccando non solo la città e la sua parte politica, confusa, divisa, incazzata, ma passiva nelle forze che dovrebbero mettere di fronte al muro il loro rappresentante numero uno e che non solo non riescono a scucirgli una parola sul futuro, ma si dilaniano tra loro in cerca di una soluzione.
E’ il Pd, il partito di maggioranza relativa, che cerca di ammainare il gonfalone del suo nocchiero con il quale litiga dal giorno del suo insediamento, ma non ci riesce. Doria non ha più una maggioranza di governo, ma il suo galeone continua a navigare nella tempesta, perchè i democratici, perfino commissariati da Roma, dopo la sconfitta nelle ultime elezioni regionali con l’invio di David Ermini, un fedelissimo renziano, un po’ schizzinoso nell’affrontare il pantano ligure e genovese, non hanno una guida forte, una leadership che impugni un bastone di comando.
Si dividono per generazioni, vecchi contro giovani, “dinosauri” contro nuove leve, e, come ha scritto in un lungo reportage sul “Corriere della Serra” il giornalista Marco Imarisio, il partito si cannibalizza da solo, nel senso che divora se stesso e traguarda nei suoi obiettivi più la sconfitta dei concorrenti interni che un successo comune.
Il cannibalismo Pd in Liguria è incominciato con quella sconfitta alle regionali, che produsse lo strappo di Sergio Cofferati, il guru eurodeputato “cinese”, candidato contro Raffaella Paita, la delfina del presidente regionale, Claudio Burlando, uscito dal partito dopo esserne stato uno dei padri fondatori e protagonista di quella scissione a sinistra, che tutt’ora bolle non solo a Genova.
La solitudine di Doria nel suo castello comunale si accentua, come nei “Cento anni” di Marquez perchè anche qui, come nel capolavoro della letteratura sudamericana, “nessuno parla più al colonnello”, nessuno colloquia più con il marchese sindaco o lo cerca nel suo eremo di sindaco-tentenna.
Il suo sponsor numero uno, don Andrea Gallo, il celebre prete da marciapiede genovese, è morto da quasi tre anni e non può più fare da suggeritore al suo protetto, sventolando la sua toga nera sul palcoscenico della politica di sinistra per richiamare a raccolta tutte le forze . Gli altri sostenitori, che sono insigni figure della sinistra democratica genovese, l’ex direttore del grande Teatro Stabile di Genova, Carlo Repetti o il professore Silvio Ferrari, grande slavista e storico dell’arte, o l’avvocato delle grandi cause di lavoro, Alessandro Ghibellini, sono lontani e forse anche un po’ delusi di avere trovato il portone del marchese sbarrato e i loro consigli non tenuti nel dovuto conto.
Così intorno al silenzio di Doria si agitano, come nella rivolta dei ciompi, figure piccole o nuove che chiedono strada tra i vecchi cannibali del Pd. Si agita il filosofo pop Simone Regazzoni, un professore di estetica all’Università di Pavia, direttore editoriale del Melangolo, affermata casa editrice, il quale si è bruscamente candidato alla carica di sindaco e alle eventuali, molto eventuali Primarie, che il partito potrebbe (ma non necessariamente dovrebbe) indire per scegliere il dopo Doria.
Questo filosofo pop ogni giorno esce allo scoperto, sfidando l’immobilismo doriano e il cannibalismo dei luogotenti, giovani e vecchi, di un partito che di fatto governa la roccaforte genovese dal 1974, con una sola piccola eccezione tra il 1980 e il 1985 (allora Genova fu amministrata da un pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli).
In siffatta situazione, sulla scia pop di Regazzoni, sono uscite tante altre ipotetiche candidature, una o più di una al giorno, fabbricate con gossip, o costruite dai giornali e dalle televisioni in un florilegio di modelli diversi di pretendenti, o ritenuti tali, senza mai neppure esserlo alla lontana, come il più autorevole di questo esercito, il presidente della Fondazione della Cultura, Luca Borzani, di professione storico e grande manager di Palazzo Ducale, unico motore che gira nella depressione genovese.
Quel sindaco silenzioso sul suo futuro e arroccato nel palazzo, che quotidianamente viene assaltato da cortei di lavoratori, con il posto di lavoro in bilico o con la cassa integrazione incerta, Ilva, Piaggio Aerei o le dissestate aziende partecipate del Comune come Amiu e Aster e Amt, dai bilanci strappati e dal destino tempestoso, come ogni attività genovese in questa cappa grigia di melanconia economica e degrado urbano, la flotta Messina che per la prima volta mette in cassa integrazione i suoi dipendenti, i grandi magazzini di Giglio Bagnara che a Sestri Ponente, delegazione ex operaia e operosa, trattano un “concordato continuato” con il Tribunale, per non soccombere ai creditori di quello che fino a qualche anno fa era considerato un piccolo Magazzino Harrod’s genovese, un gioiello della grande distribuzione, fa un po’ da tappo e un po’ da provocatore all’eccitamento delle candidature.
Tanti candidati con almeno tre o quatto assessori in carica portati alla ribalta, Emanuele Piazza, Stefano Bernini, Carla Sibilla, Gianni Crivello, come possibili successori . Vuol dire nessun candidato. E così le contorsioni della sinistra, nel silenzio rimbombante del primo cittadino, aprono una grande breccia nella roccaforte rossa di Genova, quella che nessun Berlusconi, nessun Bossi, nessun democristiano del post anni Settanta, era riuscito a far tremare. Celebre la frase con la quale nel 1997 uno dei colonnelli dell’allora Pds, Ubaldo Benvenuti, disse al sindaco uscente di allora, Adriano Sansa, ex pretore d’assalto, licenziandolo di fatto: “Guarda che noi siamo in grado di far eleggere sindaco il primo camionista che passa….”. Tanta era la geometrica potenza del fu Pci.
Oggi per la prima volta la Superba può essere conquistata e quella potenza frantumata, anzi quasi sicuramente la Superba sarà conquistata da una forza che non sia di sinistra. Ma oggi, nello scatenamento cannibale dei candidati del Pd, le possibilità più scintillanti ce le hanno sia la Destra moderata di Giovanni Torti, il presidente della Regione a sorpresa o i pentastellati di Beppe Grillo, che non a caso è genovese.
E se nel vuoto pneumatico del silenzio doriano i nomi sono troppi, i possibili concorrenti della Destra o dei 5 Stelle sono, a quattro mesi dal voto, totalmente sconosciuti e neppure fantasticamente ipotizzabili, se non con acrobazie da gossip puro.
Toti, il leader che non credeva neppure di avere vinto le regionali, tanto grande fu la sorpresa davanti al suo successo nel giugno del 2014, continua a ripetere che il candidato giusto sarà estratto dal cilindro due mesi soli prima del voto.
“Tanto le candidature si costruiscono rapidamente, sostiene l’ex portavoce di Berlusconi, con i mass media moderni si fa presto”. E lui ne sa qualcosa, visto non solo il suo personale successo, creato da Berlusconi in persona che lo candidò motu proprio in Liguria, all’ultimo momento, probabilmente per creargli il merito di avere condotto una battaglia impossibile e, visto anche il successo di Ilaria Caprioglio, neo sindaco a Savona, scelta all’ultimo sulla base di un look accattivante e di una capacità mediatica forte.
Per i Cinque Stelle il problema della candidatura, malgrado le incertezze romane e anche certe divisioni genovesi, è chiuso in cassaforte. Il loro sistema di scelta con le autocandidatore sul web, la “graticola” del giudizio interno e rigorosamente via rete è blindato: sapremo all’ultimo, e solo all’ultimo, chi è lo sconosciuto o la sconosciuta che correrà per conquistare il palazzo dove Doria sigilla ancora il suo silenzio.
Forse che un anno fa sapevamo chi era Virginia Raggi e avevamo cognizione del curriculum di Chiara Appendino, divenute poi sindaco di Roma e Torino?
Il vento che soffia a Genova, gelido in questo inizio di anno, un po’ quella tramontana scura che spiana il mare da Nord, un po’ il libeccio cattivo che arriva frontale sulle banchine del porto e si è già mangiato le avare spiaggie di pietre dei lungomari dissestati, sibila nei corridoi del marchese-sindaco, arroccato sotto il gonfalone.
“Il suo silenzio prolungato è l’atto più astuto della sua gestione” azzarda uno degli osservatori più acuti della realtà genovese, il professor Mauro Barberis, genovese ma docente all’Università di Trieste, prima firma del quotidiano genovese “Il Secolo XIX”. “Non svelando le sue intenzioni, il sindaco lascia scannare i possibili concorrenti del Pd, sostiene il prof. e quando saranno tutti morti, ci sarà solo uno a cui poter chiedere di candidarsi: lui.”
Tesi molto provocatoria e che si sposa bene con l’analisi di quel reportage di Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera” a proposito del partito cannibale, che divora se stesso, aspettando decisioni che non arrivano. Ma se così fosse e se veramente il lungo silenzio del marchese-rosso, come era denominato il padre di Marco Doria, Giorgio, vice sindaco degli anni Settanta, fosse il preludio di una sua mossa spiazzante nel campo del centro sinistra, poi, dopo che fosse scattata questa diabolica trappola, il candidato riconfermato avrebbe da confontarsi con gli altri concorrenti ancora “coperti”, a Destra e nei Cinque Stelle e con gli eventuali “civici”, già in corsa. E qui nessuno scommette che, uscito dalla sua torre con la mossa del cavallo, Marco Doria avrebbe molte possibilità di vincere.