IL CAIRO – Che cosa ne sarà dell’Egitto? Ho l’impressione che in Occidente si sta sottovalutando quel che accade sull’altra sponda del Mediterraneo e che non potrà non avere conseguenze politiche, economiche e culturali anche in Europa. Per quanto sempre sul punto di esplodere negli ultimi anni, non avrei mai creduto che l’Egitto diventasse il laboratorio dell’islamismo anche se c’è ancora qualcuno che lo nega. Nulla, del resto, lo faceva prevedere.
Il Cairo mi si presentò come una città di sabbia senza tempo la prima volta che la vidi dall’alto, mentre stavo per atterrare. Aspra, ma tranquilla. La sabbia del deserto che la circondava faceva tutt’uno con le abitazioni che sembravano tante tane, alcune molto alte, ospitanti un’umanità irrequieta. Da vicino ebbi l’impressione che le case degli egiziani non fossero altro che dormitori, mentre la vita dei cairoti si svolgeva altrove, nelle strade, nelle piazze, nel bazar, nelle moschee. Donne e uomini liberi, insomma, che vivevano anche intensamente la loro religione, ma si mostrano piuttosto alieni dal farne un mito intollerante. Musulmani sì, fanatici no.
Questa caratteristica mi è parsa sempre più evidente con il passare del tempo, fino a quando ho frequentato Il Cairo riconoscendovi uno dei poli del dialogo tra le civiltà mediterranee insieme con Atene e Roma. L’ultima volta che ci sono stato ho avuto la fortuna di incontrare il Grande Imam Mohamed Sayyied Tantawi, rettore della più antica università coranica, Al Azhar, fondata nel 970. Con la dolcezza che gli era abituale mi spiegò come nel Corano non si trovi neppure una riga che imponga alla donna di sottomettersi al velo: l’usanza, diventata segno di discriminazione e di umiliazione, è piuttosto il frutto di un’invenzione teologica islamica.
Il saggio egiziano, conservatore illuminato ed ultimo autorevole esponente di una grande tradizione culturale, mi introdusse, con poche e levigate parole, pronunciate con naturale eleganza, in un mondo che si voleva e si vuole “separato” onde evitare “contaminazioni” che potrebbero renderlo permeabile all’occidentalizzazione che Tantawi non temeva finché il confronto si fosse articolato tra le ragioni culturali di ognuno senza pregiudizi o ipocrisie.
Accolsi quindi il suo dolore per le recenti manifestazioni di ostilità di alcuni gruppi islamisti ai danni della comunità coopta cairota. E mi commosse il suo richiamo alle nostre comune ascendenze mediterranee. Lo piansi nel marzo dell’anno scorso apprendendo della sua morte improvvisa a Ryad. Con lui spariva un uomo del confronto; il dialogo tra le civiltà non sarebbe stato più lo stesso.