E del resto che cosa si poteva invidiare a Hendrix, un talento non comune, una sensibilità che trasmetteva incandescenti sensazioni agli ascoltatori, la capacità di suonare il suo strumento come se fosse un’appendice del suo stesso corpo, di far vibrare l’anima di chiunque come mai era accaduto prima ascoltando i celebratissimi Beatles, Rolling Stones, Cream, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, e via elencando? Di Hendrix resta la musica, le performance, ma anche i testi di canzoni che sembrano uscite dall’anima di Kerouac, di Ginsberg, di Ferlinghetti, di Corso; ma anche di Eliot e di Pound. In una delle ultime diceva: “La storia di una vita è più rapida di un battito di ciglia”. La sua di sicuro.
E nel secondo album, quello che si apriva con una versione entusiasmante della beatlesiana Sgt. Pepper’s Loneley Hearts Club Band, in un’altra che avrebbe fatto epoca, Room full of Mirror, si ascolta: “Vivevo in una stanza/piena di specchi,/ tutto quello che riuscivo a vedere era me stesso”.
Lo specchio lo aveva fatto lui, mettendo in una cornice schegge varie, come racconta Charles R. Cross, per avere forse una visione deformata, come la vita di tutti noi, di se stesso, con una differenza: lui era capace di amare le proprie imperfezioni, di accarezzarle, di esaltarle perché umanissime, come umane erano le note di Hey Joe, un lungo struggente urlo, una richiesta di comprensione, un mendicare brandelli di anima nel trionfo del nichilismo conformista.
“Chiamami angelo blu selvaggio. Il selvaggio angelo blu”, disse a chi doveva introdurlo in quello che sarebbe stato il suo ultimo grande concerto, a Wight, il 30 agosto del 1970. Poi volò a Stoccolma e a Fehmarn, in Germania: altre scariche andrenaliche, nonostante la depressione cominciasse a farsi sentire. E infine si fece davvero angelo, in una stanza d’albergo a Londra, in compagnia di Monika, l’ultima Electric Lady che si tolse la vita il 5 aprile 1996, dopo aver trascorso venticinque anni senza Hendrix dipingendo ossessivamente Hendrix in abbracci soprannaturali con lei.
C’era e rimane il senso profondo dell’effimero nelle composizioni hendrixiane. Musica e poesia. Niente, soprattutto oggi, di più trasgressivo. Da qui la sua attualità. La sua stupefacente contemporaneità. Oggi suonerebbe e canterebbe così come lo ascoltiamo nell’album postumo. Perciò chi ebbe la ventura di assistere alla sua performance più riuscita, a Woodstock, ne fece un simbolo che si sarebbe rivelato intramontabile.
In quell’occasione, Hendrix impugnò come un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie volte per accordarla, si produsse in una interpretazione che sarebbe rimasta indimenticabile di The Star Spangled Banner , l’inno americano, sul ritmo di Voodoo Chile. Dalla sua chitarra uscirono suoni distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy Cox ed il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero sugli attenti.
Il brano catapultò gli spettatori nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove gli Stati Uniti stavano affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di “musica, pace e amore” di Woodstock. Gli altri se n’erano andati, sotto un temporale improvviso che si abbatté sulle cinquecentomila persone convenute in quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster, stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della kermesse.
I centottantamila rimasti s’illuminarono improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una “rivolta” pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità esprimere i loro disagi, le loro ansie, la creatività di quella “nazione hippie” che si stava formando al di là delle convenzioni e di un “ordine” tanto sfuggente da sentirlo estraneo se non ostile.
A ventiquattro anni dalle fine della guerra mondiale, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il “nemico assoluto”, l’Unione Sovietica, ed in allarme per le installazioni missilistiche a Cuba, i giovani americani di quarant’anni fa più che esorcizzare la violenza che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze, immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi.
Così a Woodstock si ritrovarono il 15 agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati dagli unici “eroi” che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e di parole tutt’altro che “innocenti” per l’establishment che faticava a comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali si attendevano da un Paese che aveva contribuito a liberare l’Europa di essere essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle amministrazioni statunitensi le quali non avevano neppure l’alibi di voler esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un futuro in un Pianeta inquieto.
Woodstock era stato ideato da Michael Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro “figli dei fiori” con vocazioni manageriali . Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di Woodstock.
