Poi pensarono ad un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente proibitiva. Se non fosse stato Elliot Tiber (che racconta il tutto nel suo libro scritto con Tom Monte, Taking Woodstock, Rizzoli) proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero lasciato perdere.
Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese ad un allevatore della zona, Max Yasgur di affittargli i suoi seicento acri (2,4 Km quadri) per 75.000 dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca manovra “sovversiva”.
Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a Rolling Stone: “Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena”.
Altro che un “incubo di fango e stagnazione” animato da “intrusi dall’aria freak”, come scrisse il New York Times per correggersi qualche giorno dopo quando ammise che si trattava di “un fenomeno di innocenza” al quale quella massa enorme di giovani aveva preso parte “per avere il piacere di stare insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una dichiarazione d’indipendenza”.
C’era qualcosa di più, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da una opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who, Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Youg, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente, la modernità, l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno ad un comunitarismo dalle radici rurali, ad una certa idea della bellezza.
Di tutto questo la musica di Hendrix era la colonna sonora. Lo è stata a lungo. Oggi è un richiamo ad un modo impossibile nel quale è proibito sperare, sognare, forse addormentarsi come uomini liberi dai condizionamenti della tecnica dopo aver ritenuto di sconfiggere l’utopia delle ideologie e delle rivoluzioni. La sola liberazione è riconoscere la persona che agisce in una comunità di uguali cercando di sottrarsi ai condizionamenti dell’avidità. Hendrix lo aveva compreso prima di molti sociologi che, in quel suo tempo ricco di speranze nonostante tutto, non riuscirono a comprendere politicamente l’utopia di Woodstock.
Per la sinistra mondiale, legata al mondo comunista, essa rappresentava una distorsione nella lotta contro l’imperialismo. Per i conservatori fu la manifestazione di un “disordine morale”. Per Ernesto Assante e Gino Castaldo, che hanno rievocato quell’esperienza nel libro Il tempo di Woodstock, fu il primo grande laboratorio “di prove generali per un mondo libero”. Forse fu semplicemente la realizzazione di un sogno che, comunque la si pensi, quarant’anni dopo continuiamo a portarci dentro, convinti che le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali universali furono inconsapevolmente denunciati su quel grande prato dove si assiepò una “nazione” senza futuro.
