La vittoria inaspettata di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America ha creato sgomento tra gli analisti di tutto il mondo. Per mesi e ancor più nelle ultime settimane un esercito di sondaggisti e di opinionisti, che sulle indicazioni dei sondaggisti orientavano le loro opinioni, ci hanno spiegato che nonostante il piombo nelle ali della Clinton non ci sarebbe stata alcuna possibilità per Trump di vincere le elezioni. Cosi non è stato. Oggi buona parte degli opinionisti è preoccupata per l’ondata di populismo, che avrebbe portato Trump alla Casa Bianca e che rischierebbe di allargarsi a macchia d’olio nel continente europeo dove i vari Grillo, Salvini, Le Pen, ecc. alimentano il timore per la possibilità, che appare sempre più concreta, di arrivare al potere nei rispettivi paesi. Orban in Ungheria è soltanto un esempio di cosa potrebbe accadere.
Il vento di populismo che spira, a quanto pare, non solo sull’Europa ma anche oltre atlantico, deve farci riflettere sulla imminente scadenza elettorale che abbiamo di fronte: quella del referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.
Donald Trump, quanto meno per i toni e i contenuti della sua campagna elettorale, è senza alcun dubbio un populista che ha solleticato ed è riuscito a rappresentare il diffuso sentimento popolare di critica all’establishment. Ma la domanda che dobbiamo porci è: la presidenza di Trump può costituire un pericolo per la democrazia americana? La risposta non può essere che negativa, per il semplice fatto che nella democrazia americana sono vitali gli anticorpi che garantiscono l’impossibilità di una deriva populistico-autoritaria.
Questi anticorpi non sono certamente le manifestazioni di piazza o i cortei che in questi giorni riempiono le cronache di alcune città americane. Si tratta di anticorpi che sono presenti e vitali nell’assetto costituzionale degli Stati Uniti. In primo luogo, il Presidente non è il capo del Partito Repubblicano.
In secondo luogo, la Camera e il Senato (entrambi elettivi) hanno oggi una maggioranza repubblicana, ma il Partito Repubblicano non si identifica con il Presidente.
In terzo luogo, il Parlamento americano si rinnova parzialmente nelle elezioni di mezzo termine, che consentono, perciò, ai cittadini di esprimere, sia pure indirettamente, il loro giudizio sull’attività del Presidente, confermandogli e garantendogli una maggioranza parlamentare o vincolandolo al controllo pressante di una diversa maggioranza.
In quarto luogo, la Corte Suprema rimane un organo assolutamente indipendente e, grazie alla sua composizione, organo di controllo del Presidente e non è da esso controllato.
Ci sono, quindi, nell’architettura costituzionale degli Stati Uniti tutti gli elementi di equilibrio e divisione dei poteri che consentiranno , anche in questo caso, di garantire il corretto funzionamento istituzionale e di fronteggiare velleità o avventure populistico-autoritarie.
È alla luce di queste considerazioni che deve essere valutato il referendum che abbiamo di fronte. La Costituzione del ’48 si basa, non a caso, sul principio fondamentale della divisione e dell’equilibrio dei poteri: Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale sono tutti organismi separati che si controllano a vicenda e che quell’equilibrio garantiscono.
La riforma costituzionale, che deve assolutamente essere letta contestualmente alla riforma elettorale elimina l’equilibrio dei poteri e altera il rapporto tra pesi e contrappesi. Il capo di un partito (si badi bene il capo) si nomina sostanzialmente la maggioranza di una Camera, da cui dovrebbe ottenere la fiducia, e attraverso il suo controllo si nomina il Presidente della Repubblica e buona parte della Corte Costituzionale. Una concentrazione di poteri che deforma l’assetto istituzionale, rendendolo squilibrato, a tutto vantaggio del Capo dell’esecutivo.
Se così è e se è vero che una ondata di populismo si sta abbattendo sul continente europeo, possiamo permetterci il lusso di modificare la Costituzione eliminando quelle garanzie di equilibrio dei poteri in essa contenute? Una riforma costituzionale non può essere legata alla vita di un Governo.
Il 4 dicembre non è, perciò, un plebiscito su Matteo Renzi. Purtroppo Renzi ha voluto impostarlo così, ma così non è. Una Costituzione è scritta per durare nel tempo. Proprio oggi e alla luce delle elezioni americane appare più che mai necessario preservare la separatezza e l’equilibrio dei poteri e garantire la rappresentatività del Parlamento. Per questo occorre serenamente e razionalmente votare NO.
Giancarlo Tartaglia