ROMA – Se e quando il nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ci sarĂ , allora se varrĂ anche per i dipendenti pubblici non si sa. Il governo sta meditando, tre milioni e mezzo di statali stanno attendendo. Attendendo una “trovata”, un “garbuglio” che li esenti dalla nuova normativa. Esenti per diritto…diritto di che? Di che non si sa, per l’ottimo motivo che un perchĂ© per esentarli non c’è. O meglio c’è, eccome se c’è: i dipendenti pubblici sono di fatto illicenziabili, nonostante leggi e regolamenti che prevedono, addirittura fissano le regole e le modalitĂ per i dipendenti prima in esubero, poi in mobilitĂ e quindi licenziabili. Se c’è eccedenza di organico, se rifiutano altra collocazione, se sono passati quattro anni di mobilitĂ . E se sono stati documentati e provati comportamenti passibili di licenziamenti disciplinari. Tutto in teoria, solo teoria. PerchĂ© non ci sono controlli e nessuno nella Pubblica Amministrazione, tanto meno i dirigenti, si sogna di accollarsi la “grana” di imbarcarsi in un tentato licenziamento.
Ma, nonostante questa non licenziabilitĂ di fatto, si lavora ad esentare il pubblico impiego dal “nuovo” articolo 18. Per riuscirci si tratta di violare un principio addirittura costituzionale: l’eguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge. E si tratta di sfidare la logica e anche la decenza. Se nel paese si stabilisce che un lavoratore puĂ² essere licenziato previo pagamento di una indennitĂ economica nel caso la sua azienda abbia difficoltĂ economiche perchĂ© chi lavora per lo Stato deve essere esente da questa regola? PerchĂ© tutte e sempre le amministrazioni pubbliche hanno i bilanci in attivo? PerchĂ© se vanno in profondo rosso tanto c’è sempre il contribuente che ripiana e paga? PerchĂ© la Pubblica Amministrazione deve essere dichiarata finanziariamente irresponsabile? Se nel paese si stabilisce che un licenziamento per motivi disciplinari puĂ² essere risolto dal giudice o con il reintegro, qualora il licenziamento risulti alla sua valutazione ingiusto, oppure con il pagamento di una indennitĂ economica, perchĂ© chi lavora per lo Stato deve essere esente? PerchĂ© nella Pubblica Amministrazione non c’è nessuna disciplina da rispettare? PerchĂ© assenteismo cronico, qualora ci fosse, false dichiarazioni di malattia o rifiuto di svolgere le mansioni assegnate nel pubblico impiego sono condotte accettate e non punibili? PerchĂ© resta, deve restare in vigore un antico patto tra lo Stato e i suoi dipendenti, quello che sancisce: tu lavori poco e male, io ti pago poco e male e non ti disturbo in ogni caso? E’ fatto di questa pasta il “diritto” all’esenzione per gli statali dal nuovo articolo 18?
E mica solo gli statali. Si legge che esentati dal pericolo di licenziamenti per motivi economici devono essere anche gli iscritti agli ordini professionali: i medici, gli avvocati, i giornalisti…PerchĂ©? PerchĂ© le loro aziende, le aziende di cui sono lavoratori dipendenti non possono avere problemi economici e, se li hanno, comunque non contano, non devono avere effetti sui dipendenti dotati di una qualche tessera di ordine professionale? Quella tessera rende gli iscritti invulnerabili e indifferenti alla crisi economica che coinvolge i comuni mortali senza tessera e alle leggi fatte per tutti gli altri ma non per loro? PerchĂ©, dicono i rappresentanti di medici, avvocati e giornalisti, ogni volta che tocchi un medico tocchi “la salute del cittadino”. E ogni volta che tocchi un avvocato tocchi “la giustizia per i cittadini”. E ogni volta che tocchi un giornalista tocchi “la libertĂ di pensiero ed espressione a vantaggio dei cittadini”. Pensano sempre e solo ai “cittadini”, mai a se stessi i professionisti che attendono e reclamano esenzione dal nuovo articolo 18.
Infatti come tutti sanno è impossibile che un medico, un avvocato o un giornalista possa venir licenziato per esubero di personale, ristrutturazione aziendale, comportamento lavorativo sanzionabile. Professionisti di troppo non possono esistere. Operai sì, ma professionisti no. In nome del diritto, del diritto…di che? E’ una questione di principio, di principio che offende e ferisce tutti quelli che non saranno esentati. Ed è anche una questione di sostanza.
Nell’ultimo talk-show andato in onda in tv una donna di 44 anni chiedeva chi e cosa le avrebbe garantito la sopravvivenza nel caso fosse licenziata. Quella donna era sorda, erroneamente ma comprensibilmente sorda, all’argomento per cui un posto di lavoro garantito e uno stipendio garantito non esistono al mondo. Lei voleva “vivere” e gridava la sua rabbia. I talk-show, un giorno andrĂ pure valutato il danno sociale portato da venti anni di talk-show, di questo tipo di rabbia fanno spettacolo e ci inzuppano il pane. E questa rabbia ipnotizza non solo lo spettatore ma anche l’intero e variegato mondo della sinistra. Sinistra che confonde la rabbia sociale con il bisogno piĂ¹ o meno cosciente di chi la grida la rabbia di welfare, democrazia, social democrazia, socialismo, comunismo. Quella rabbia che c’è, eccome se c’è, non ha mai prodotto nella storia nĂ© welfare, nĂ© democrazia, nĂ© socialdemocrazia, nĂ© socialismo e neanche comunismo. Quella rabbia ha alla fine sempre arruolato e coagulato altro: populismo, autoritarismo, cesarismo, peronismo e, non stupisca, perfino fascismo. Ma la rabbia c’è e anche a chiamarla con i suoi corretti nomi storici non sbolle, anzi monta. E allora la sinistra potrebbe, dovrebbe “fare qualcosa di sinistra”.
Stabilire ad esempio che non esistono esenti per diritto…diritto di non si sa cosa. Trovare i soldi che mancano per sopire quella rabbia togliendoli ai gruppi sociali che campano di iniezioni di denaro pubblico improduttivo. PiĂ¹ precisamente sarebbe molto “di sinistra” chiedere, esigere da Monti e dal suo governo che il taglio mirato alla spesa pubblica arrivi subito e almeno insieme al nuovo articolo 18. Doppi e tripli stipendi nella Pubblica Amministrazione, rami e comparti della Pubblica Amministrazione che non hanno altra ragione di esistere che erogare stipendi.  Consulenze e incarichi, grandi e anche piccole. I miliardi che la macchina della politica, soprattutto quella locale, distribuisce alle clientele sottraendoli al fisco, letteralmente togliendoli dalle tasche di chi paga, se le paga, le tasse piĂ¹ alte del mondo. Sarebbe molto di “sinistra” togliere alla spesa pubblica e alle corporazioni professionali per dare al salario e al reddito sociale di sostegno di chi cerca un lavoro mentre lo cerca. Ma come si fa quando la sinistra non disdegna di essere il “sindacato” di quelli che vogliono essere esenti ed esentati?
