ROMA – “E’ una cosa troppo complicata per poter inviare messaggi…”, così comprensibilmente Giorgio Napolitano al giornalista che gli chiedeva la “dichiarazione” di giornata sull’Ilva. Comprensibile che il capo dello Stato non voglia prestarsi al gioco della frase che fa titolo di giornale, però tanto complicata non è. Anzi è maledettamente semplice: vanno fermati quelli che stanno chiudendo l’acciaieria, va fermato l’inquinamento e l’avvelenamento che viene dalla fabbrica. Ed entrambe le cose vanno fatte con le “buone”, il che appare ormai improbabile e con le “cattive”. Va stabilito un “obbligo” di non chiudere, qui e ora e di cominciare a smettere di inquinare, subito e in maniera massiccia.
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Al di fuori, prima e a fianco di questo obbligo che non c’è e qualcuno deve sancire e far rispettare ci sono ricatti, misfatti e distintivi, cioè il solito disastro Italia. Misfatti, come quelli di una azienda che per anni nasconde, sottovaluta e anche un po’ se ne frega se le emissioni delle sue ciminiere alla fine ammazzano qualcuno. Misfatti, come quello di “piazzare” verità di comodo, di ammorbidire controlli e relazioni, di “ungere” il meccanismo che chiude gli occhi dei vigilanti e le labbra dei controllori.
E dopo i misfatti i ricatti: se mi imponete di risanare allora io chiudo. E allora io ti sequestro quel poco che produci ancora, così impari. Ricatti, gentilmente raccontati come puntate di un lungo braccio di ferro. Ma in realtà dimostrazioni di presunta forza, opposti “gorilla” che si battono il petto con fragore per intimorire e mettere in fuga l’avversario. Già l’avversario: l’azienda che vive la magistratura come il nemico ad elidere, il concorrente da sconfiggere. E la magistratura locale che vive l’azienda come un criminale recidivo e incorreggibile, uno di cui diffidare e a cui non concedere neanche l’ora d’aria, cioè di produzione. Performances tali e reciproche da indurre il giustificato sospetto che il calo della qualità professionale non investa solo il ceto politico e quello giornalistico ma anche quello imprenditoriale e quello inquirente e giudicante.
Misfatti, ricatti e distintivi. Null’altro che “distintivi” hanno esibito per anni e anni le autorità e le forze politiche e sociali. Tutte acquattate finché tirava buon vento o vento cattivo spirava solo leggero, tutte sorprese e indignate quando tira aria brutta. “Distintivi” e nulla di più e soprattutto di meglio: io esibisco i “miei” morti di cancro che sono mille e più di mille…No, stai gonfiando le cifre per farti pubblicità…No, tu le nascondi perché sei complice…Io esibisco i “miei” posti di lavoro che se tu rompi le scatole poi svaniscono…Tu prendi in ostaggio gli operai…No, tu ecciti la folla…Questo stanno facendo partiti, associazioni, sindacati, ministri…Fino a ieri facevano di meglio o forse di peggio, facevano le tre scimmiette e i pesci in barile.
Ma purtroppo solo “distintivi” esibisce la magistratura e l’informazione. Non si può far finta di non sapere che sequestrando i prodotti lavorati la fabbrica chiude, non si può stare rintanati al riparo del “io faccio il mio, accada quel che accada”. Accade e lo devono sapere anche i magistrati che se Ilva chiude poi nessuno la risana e resta l’inquinamento e l’avvelenamento. Non era questo il reato? Per perseguirne e punirne gli autori vale la pena che il reato continui. Qual è il bene supremo? La coerenza della legge o la salute pubblica? E è o non è salute pubblica anche il lavoro, quelle migliaia di posti di lavoro? E non si può adesso raccontare di Vendola, del sindaco, del governo, dello Stato come di tutti complici di chissà quale complotto. Nelle intercettazioni si legge che più o meno tutti si preoccupavano che la fabbrica restasse in vita. E che dovevano fare, fregarsene, lavorare alla chiusura?
Ricatti, misfatti e distintivi, gli identikit del consueto metodo Italia. Infatti toccherà al governo più “straniero” d’Italia, se ce la fa, di sospendere recita, dramma e rappresentazione. Ordinando quel che si deve fare e non fare e che già avrebbe fatto o non fatto qualunque azienda non eccessivamente opportunista, qualunque magistratura non esageratamente invaghita di se stessa, qualunque politica non tossicodipendente da voti, qualunque società non istericamente corporativa.