In più, come si è accennato, il debito statuale si concentra nei paesi più sviluppati che ormai da anni sono anche quelli con i più modesti tassi di sviluppo: detto in termini spicci, sembra che il debito pubblico svolga più la funzione di mantenere elevati livelli di vita che quella di finanziare lo sviluppo. Ma sono fortemente aumentati anche gli indebitamenti delle autonomie locali e del sistema bancario, legato a doppio filo a quello della finanza pubblica, nonché, attraverso quest’ultimo, anche l’indebitamento privato. I controlli su movimenti finanziari sempre più massicci, anziché farsi più stringenti si sono diradati: deregulation è stata la parola d’ordine per molti anni, almeno fino alla crisi del 2007-2008.
E’ chiaro che in questa situazione perseguire politiche keynesiane è pressoché impossibile, checché ne dica il premio Nobel Paul Krugman, keynesiano di ferro e mito per una parte rilevante anche della sinistra italiana. Così com’è impossibile, d’altro canto, uscire dalla crisi solo riducendo l’indebitamento e senza una ripresa dei tassi di sviluppo delle economie. La recessione, oltretutto, è malattia assai contagiosa, non risparmia nessuno: anche la “ricca” Germania comincia a mostrare chiari segni di rallentamento. Del resto, com’è pensabile che un’economia export-led come quella tedesca possa non risentire della crisi in cui versano quasi tutti i suoi principali mercati di sbocco?
In prima fila a sostenere le tesi anti-keynesiane vi sono due economisti italiani che hanno a lungo lavorato negli Stati Uniti e che proprio con Krugman hanno avuto roventi polemiche, Silvia Ardagna e Alberto Alesina. Ardagna sostiene, senza peli sulla lingua: “Bisogna tagliare la spesa pubblica, in particolare quella corrente per salari e impiego pubblico, sussidi alle imprese e trasferimenti alle famiglie, perché, come dimostra l’esperienza storica, correzioni di bilancio realizzate per la maggior parte attraverso tagli di spesa hanno maggiore possibilità di successo, riuscendo a innescare una riduzione del debito pubblico e a generare effetti virtuosi sulla crescita”.
Il discorso della Ardagna è ovviamente molto più articolato e basato anche su ricerche empiriche. Fra l’altro l’economista sostiene che ridurre i livelli dei salari pubblici ha effetti positivi di moderazione salariale anche sul settore privato “favorendo competitività, profittabilità delle imprese e investimenti privati”. Analogamente “la riduzione dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico (resa possibile da un taglio alle spese, ndr.) si traduce anche in più bassi tassi sul credito ai privati. Ciò, ancora una volta, favorisce gli investimenti privati”.
Spunti teorici, ricerche empiriche, abilità dialettiche: su queste basi non sembra che la controversia fra rigoristi e sviluppisti possa trovare soluzione. Forse, in attesa di un novello Keynes o di un novello von Hayek, è meglio più modestamente cercare dei parziali compromessi su basi empiriche: è su questo terreno che gli economisti dovrebbero oggi esecitarsi. Ad esempio, se è vero che una politica di deficit spending è improponibile per le disastrate finanze pubbliche italiane, essa sarebbe invece possibile e auspicabile per l’eurozona nel suo complesso. In altri termini paesi come la Germania dovrebbero in questa fase aumentare la domanda a beneficio di quei partner, come l’Italia, che non se lo possono permettere e che però necessitano di mercati di sbocco.
Berlino dovrebbe essere disposta a “scambiare” le sue pretese di maggior rigore nei nostri bilanci con una sua politica economica maggiormente espansiva. Ma anche all’interno dei singoli Stati più fragili è possibile, entro certi limiti, fare una politica di crescita della domanda se la si accompagna con un parallelo aumento del prelievo fiscale su redditi e patrimoni che alla domanda contribuiscono poco o nulla, per non parlare della possibilità di una parallela riduzione dell’evasione. E’ una strada stretta e impervia, quest’ultima, ma che può dare qualche buon frutto. In sostanza, non tagli fine a se stessi, finalizzati solo a un pareggio di bilancio con effetti recessivi, ma maggiori spese finanziate con maggiori prelievi su rendite, patrimoni, alti redditi e in generale radicate su un allargamento della base imponibile. Ricominciamo da qui, piuttosto che da sterili contrapposizioni di scuola o di bottega.