Fu quel ragazzaccio la sua delizia e la sua croce, il pegno di una passione sportiva che aveva relegato le altre pratiche – la caccia, il tennis, lo sci e il golf – in ruoli ancillari. Cassano fu per lui il figlio adottivo che Roberto Mancini era stato per Paolo Mantovani. Una vita sprecata da riportare all’onore del mondo ed è facile l’ironia postuma prodotta da quel divorzio plateale, condito dagli insulti di Antonio al al suo padre putativo. In quel mènage strampalato tra un capitano d’industria e un ragazzaccio da strada baciato dal talento dei campioni, se un peccato fui consumato fu per troppo amore da parte di Duccio.
Quelle cene in villa con Cassano ospite, gli inviti di mamma Giovanna a Nervi per gustare le orecchiette alla barese con cima di rapa si trascinarono appresso privilegi ingiustificati. Cassano li scambiò per diritti acquisiti e la miccia della grande deflagrazione del 26 ottobre 2010 cominciò à a bruciare lì, nella confidenza eccessiva tra i due, il presidente e il calciatore, il datore di lavoro e il dipendente. Niente di simile accadde a Milanello fra Galliani e Cassano, ma si sa che ognuno di noi è fatto a modo suo.
E se Garrone peccò, peccò per eccesso di generosità . Chiunque altro, al suo posto, avrebbe mantenuto le distanze. Lui le annullò. Ma bisogna pur dire, in articulo mortis del grande presidente, che i germi che avrebbero divorato quella prodigiosa convivenza, cominciarono a riprodursi quando, gennaio 2010, Marotta aveva ceduto Antonio in prestito alla Fiorentina senza avvisare il presidente. Era l’ultimo giorno del mercato di gennaio, è lì si consumò un altro divorzio, poi fatale alla Sampdoria, quello fra Garrone e Marotta. I due avevano filato d’amore e d’accordo per otto anni. Ma quel colpo basso Garrone non lo perdonò più al suo amministratore delegato.
Riuscì a convincere Casssano a rifiutare la Fiorentina – il suo capolavoro più bello – ma le cose alla Sampdoria non furono più le stesse. Qualcosa si era rotto per sempre. La fiducia, che è il colante di qualunque impresa, anche la più umile. Come si usa dire, non è possibile infilare il dentifricio una volta volta che è uscito dal tubetto. La famiglia decise di averne abbastanza di Cassano, troppo costoso e ingestibile sul piano umano e calcistico, chiedere a Mazzarri e Delneri, due delle sue vittime più illustri. Duccio Garrone si impuntò: Cassano lo gestisco io, proclamò.
A costo di mettersi in urto col primogenito, Edoardo, e col suo commercialista di fiducia, Antonio Guastoni. L’epilogo è noto. La sfuriata di Cassano, gli insulti pubblici, sanguinosi, inaccettabili, che inevitabilmente condussero al divorzio. Doloroso. Lacerante. Sarà stato un caso, ma i primi sintomi del male si manifestarono nei mesi successivi alla devastante querelle con Cassano. Fu la sua sconfitta più grande, proprio nell’anno in cui la Sampdoria aveva attinto alle vette europee, preliminari di Champions League sfumata al 90′ di un indimenticabile match casalingo col Werder Brema.
Una delle ultima apparizioni di Cassano in blucerchiato. Il Milan ne avrebbe volentieri raccolto i cocci, rivitalizzando un atleta – e una persona – smarrita dall’enormità di quel che aveva provocato. Il pentimento, puntuale, giunse. Ma se tra i due erra rinato l’affetto, l’antica intesa non era più praticabile. Cassano avrebbe voluto concludere la carriera di calciatore con la maglia blucerchiata. E lo vorrebbe ancora. Purtroppo la macchina del tempo col pallone non funziona.
Il calcio è generoso ma capace, anche, di inaudite crudeltà . Aggredito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte, Duccio Garrone cominciò a defilarsi. Orfana del suo patriarca, senza più Marotta, sdegnosamente indirizzato dal presidente alla Juventus, ben lieta di accoglierne i servizi (e si è poi visto perché), la Sampdoria andò alla deriva. Uno sciagurato mercato di gennaio, due anni fa, (via Pazzini per pochi spiccioli, all’Inter), completò l’opera di disgregazione.
