Riforma della Costituzione, le ragioni del No: Salvatore Sfrecola le sostiene in questo articolo pubblicato anche sul suo blog, Un Sogno Italiano.
La premessa è pienamente accettabile: “Per vincere paura e strumentalizzazioni serve conoscenza basata sui fatti”. È il titolo della pagina che il Sole 24 Ore ha dedicato al dibattito sul referendum nella quale le ragioni del SÌ sono affidate a Francesco Clementi, quelle del NO a Valerio Onida. L’apertura è di Roberto D’Alimonte, politologo, che imposta il tema del dibattito: “Meno umori, più contenuti”. Come non si potrebbe essere d’accordo?
Sennonché i veri contenuti, secondo D’Alimonte, sembrano essere riferiti più che altro a quello che la legge di revisione costituzionale non cambia “di una virgola”, i poteri del presidente del Consiglio, quelli del presidente della Repubblica, della Corte costituzionale. Perché “quello che la riforma fa è importante ma limitato. Cambia la composizione e il ruolo del Senato. Ridisegna i rapporti tra le regioni e lo Stato. Introduce nuovi meccanismi di democrazia diretta. Modifica la procedura per la scelta del presidente della Repubblica”.
Poco importa se “poteva essere fatta meglio”, votata da “una maggioranza più ampia”. Insomma, “pur con tutti i suoi limiti” è “un passo avanti”, “dopo trenta anni e passa di immobilismo istituzionale”. Gli elettori “non dovranno decidere se questa è una riforma perfetta Non lo è”. Infine, “non è il metodo che conta”. “Meglio una riforma approvata a maggioranza che nessuna riforma”, tanto per rispondere a coloro che ritengono che, come nel 1947, la Costituzione – come ovunque nelle democrazie occidentali – debba essere approvata a larghissima maggioranza perché è la legge fondamentale dello Stato, quella nella quale gli italiani si devono poter riconoscere per anni, per decenni, come ovunque nel mondo dura una Costituzione.
Insomma D’Alimonte ripete oggi la tesi che porta avanti da tempo, “meglio questa che niente”, tradotto nel linguaggio comune. Di fronte all’immobilismo di oltre un trentennio (Renzi aveva provato a sostenere che la sua riforma era attesa da settant’anni, poi gli hanno spiegato che la Costituzione non aveva quella anzianità, per cui ha ripiegato su un minore lasso di tempo) qualcosa si doveva fare e quel qualcosa è la legge di revisione costituzionale che gli italiani dovranno leggere e capire per poi votare nel referendum. Che ho chiamato una “truffa”, perché il testo è complesso e non chiaro, tanto da non trovare concordi nella interpretazione neppure illustri giuristi. Pretendere che gli elettori possano decidere SÌ o NO con piena consapevolezza è una autentica presa in giro.
Non sconvolge il professore D’Alimonte che questa riforma “con tutti i suoi limiti” non è una leggina qualunque che è possibile modificare con un semplice emendamento in occasione del primo provvedimento normativo all’ordine del giorno di Camera e Senato. Questa è la Costituzione della Repubblica Italiana, la legge fondamentale degli italiani. Quella e questi meritano rispetto, il massimo rispetto. La Carta non si deve modificare nella consapevolezza della sua insufficienza e non si deve raccontare agli italiani che votarla non è “un attentato alla democrazia” perché nessuno l’ha detto.
L’attentato, infatti, non è nella legge costituzionale ma nell’effetto che sul funzionamento delle istituzioni e sull’equilibrio dei poteri e sugli istituti di garanzia avrà la legge elettorale, quella giornalisticamente definita Italicum. E mi sono chiesto spesso perché mai si usi la lingua che a tutti ha insegnato il diritto per designare una legge a misura dell’interesse del partito oggi di maggioranza perché la mantenga, la consolidi e l’ampli per poter nominare ad libitum il Presidente della Repubblica, i giudici della Corte costituzionale, i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nella mancanza di contrappesi sta il pericolo per la democrazia, in Italia come ovunque negli stati costituzionali. Un pericolo che senza mezzi termini è evidente già oggi nell’impegno che in prima persona ha assunto Giorgio Napolitano (chiamato dai giornali “Re Giorgio”, senza pensare che quella espressione certifica la lesione della democrazia parlamentare) intestandosi la riforma e sostenendo financo che il prevalere del NO avrebbe sconfessato la sua eredità. Ma ci rendiamo conto di quel che significa questa intrusione del Capo dello Stato in iniziative che neppure il Presidente del Consiglio avrebbe dovuto intestarsi, come insegnano da Calamandrei in poi coloro che distinguono tra le funzioni dei Governi e le attribuzioni del Parlamento.
Altro che umori, caro Professore D’alimonte, e non è vero che “non è il metodo che conta”. Perché quel metodo “ancor m’offende”. A cominciare dalla circostanza, non evocata nel Suo articolo, che a votare questa riforma della Costituzione è stato un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale per l’abnorme premio di maggioranza. Camere che avrebbero dovuto rimanere in carica il tempo minimo solamente per garantire la “continuità dello Stato”. E che, invece, resistono da due anni e mezzo e si permettono addirittura di riformare la Costituzione.
In qualunque altro paese democratico i cittadini sarebbero inorriditi. Altro che umori!
Dimenticavo, il Professore D’Alimonte è esperto di sistemi elettorali. Difende l’ Italicum incurante dei sui effetti sulle istituzioni.