E al terzo giorno il sorriso si contrasse in una mascella serrata: l’imprevisto ma non l’imprevedibile arriva a deturpare e interrompere la narrazione tranquilla e soave del “Ghe Pensi Mi”. I terremotati de L’Aquila, non tutti ma tanti, almeno duemila, assediano casa e bottega di Silvio Berlusconi, Palazzo Grazioli. Si scontrano con la polizia, volano manganellate, piovono recriminazioni: “Hai sfruttato il nostro dolore”. Rimbalzano dolenti i terremotati da una piazza all’altra, quella davanti alle sede ufficiosa del governo, quella antistante il Senato della Repubblica. Piazza Venezia, Piazza Navona: cordoni, camionette, scudi, sudore, grida, lacrime. Vogliono il possibile questi terremotati: esenzioni fiscali più lunghe nel tempo, soldi veri e subito per la ricostruzione. E vogliono l’impossibile: uno Stato, un governo e un portafoglio pubblico che ricostituisca intatto il loro patrimonio e la loro qualità della vita prima del terremoto.
Esagera Di Pietro subito accorso in piazza a fianco dei manifestanti, esagera parlando di “Rivolta sociale contro il governo”, rivolta di cui i terremotati sarebbero solo l’avanguardia, rivolta che starebbe per diventare generale. Esagera, moltiplica, sbaglia la misura e la natura di quel che accade. E Bersani, anche lui in mezzo ai terremotati, non trova niente di meglio da inventare e proporre che una nuova tassa, una “tassa di scopo” per l’Abruzzo terremotato. Dimentica Bersani che altre e analoghe tasse di scopo si sono trasformate in scialo e sperpero di spesa pubblica. Esagera e va fuori fuoco l’opposizione. Ma al terzo giorno Berlusconi assaggia una bella fetta dell’amara legge del contrappasso: chi demagogia ingrassa, di demagogia resta prima o poi ferito. Berlusconi ha raccontato al mondo che l’Abruzzo era un meraviglioso terremoto risolto, un paradiso dell’efficienza, una pratica di governo chiusa. Non è così, non poteva essere così e ora il filmino propagandistico sempre proiettato in ogni comizio e ogni telegiornale vede la sua pellicola strapparsi, strappato dalle mani di chi è deluso perchè il possibile arriva con lentezza e l’impossibile è stato dato per garantito, anzi per già fatto.
Dentro Palazzo Grazioli Berlusconi s’infila quando l’assedio dei terremotati è stato in parte già tolto. Non sorride, non sarebbe il caso. Si mette, secondo la narrazione ufficiale del “ghe pensi mi a lavorare” appunto al lavoro. Vertice del Pdl. Ma c’è qualcosa che stride, clamorosamente e significativamente stride tra l’ordine del giorno del vertice e la giornata che i fatti stanno imponendo al premier. Il vertice del maggior partito italiano ha al suo primo punto il cosiddetto Lodo Alfano. Sì, insomma quella legge che rende immuni e intoccabili ai processi il premier e tutti i ministri. Immuni e intoccabili dai processi che dovessero derivare dalla loro azione di governo, ma anche quelli che possano avere origine prima che premier e ministri fossero tali. Insomma immunità assoluta e senza tempo per garantire la “serenità di governo”. E al secondo posto nelle carte del vertice c’è la legge anti intercettazioni, quella cosa che al stampa chiama “legge bavaglio” ma in realtà è “legge ganascia” perchè blocca le indagini prima e più delle notizie. E poi, al terzo ma non ultimo posto, c’è la ricerca del come buttare fuori Fini dal Pdl e dalla presidenza della Camera. E’ un “ordine del giorno” strabico e alquanto schizofrenico se rapportato alla giornata che si snoda. Il Lodo è affare personale del premier, la legge anti intercettazioni è esigenza poco più che personale, bisogno di casta. La guerra con Fini è cosa seria ma vissuta e affrontata come fosse quella che Berlusconi chiama “vecchia politica”.