Ci si aspettava una risposta da Fini alle accuse rivoltegli dalla maggioranza ed è puntualmente è arrivata. Toni pacati, argomenti misurati, alto profilo istituzionale: ma sulla giustizia non arretra di un millimetro rispetto agli strattoni, alle contumelie e gli inviti ad andarsene. Davanti alla platea del Salone della Giustizia organizzato a Rimini, a suo agio nell’unico abito politico cui al momento sembra tenere, quello di Presidente della Camera, lo scomodo cofondatore del Pdl ha rinnovato gli auspici per una riforma della giustizia complessiva, condivisa e da fare in Parlamento.
Nessun accenno ovviamente alle polemiche seguite all’incidente “fuorionda”. E nemmeno ha offerto alcuna soddisfazione alla ultimativa richiesta di chiarezza giunta dai vertici del partito su pentiti, uso politico della giustizia e sconfinamento del potere giudiziario.
Il Fini-pensiero è netto e non collima davvero con gli umori dei suoi (fino a quando?) alleati. Serve una riforma condivisa da affrontare in Parlamento perché c’è un deficit di efficienza nella macchina giudiziaria avvertito in primo luogo dai magistrati che spesso hanno dato la vita per assolvere la propria missione. La magistratura va intesa, come più volte ribadito dal Presidente della Repubblica, come servizio ai diritti e alla sicurezza, non come mera espressione di potere. L’obbligatorietà dell’azione penale garantisce l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: perché non si declini in totale discrezionalità dei pm occorre ridurre il numero dei reati e rendere quelli minori illeciti amministrativi.
E’ necessario cambiare i criteri della progressione delle carriere: meno scatti d’anzianità e più meritocrazia. Ma quanto alla separazione delle stesse la funzione dei pm e la sua autonomia deve rimanere “incardinata nel sistema giudiziario”.
Alla fine il Presidente della Camera si congeda così: “Libertà e giustizia”.
