Un giorno Silvio Berlusconi ha detto: “Di libertà di stampa ce n’è fin troppa”. L’ha detto, chiaro, tondo e convinto. E il paese cosa ha detto? Ha detto e dice: sì, ma tanto poi non lo fa, tanto poi non succede…
Bene, lo sta facendo. Sta stabilendo per legge il principio che il potere esecutivo decide e autorizza ciò che della vita associata può essere reso noto e pubblico. Se non fosse tragicamente ridicolo, sarebbe appropriato il paragone esplicativo con il Milan che vieta di pubblicare ciò che si sa dello “spogliatoio” per non compromettere i risultati della squadra. Sta stabilendo la mutazione per legge del diritto a vietare comportamenti illegali, la fuga di notizie, in diritto del governo ad autorizzare ciò che si stampa. Sta cercando di stabilire in Costituzione che la sovranità e il sovrano sono “assoluti”, cioè letteralmente sciolti da vincoli. Lo sta facendo: quello che nelle democrazie occidentali nessuno, nell’occidente liberale, nessuno ha fatto da due secoli e che nessuno ha tentato di fare in Italia dal 1945.
Lo sta facendo, sta allestendo un altro “regime”. Regime non è sinonimo di dittatura, significa solo l’uno o l’altro sistema di leggi e poteri in cui si esercita la sovranità e si svolge la vita collettiva. Il regime in allestimento è altro e diverso da quello della democrazia liberale. Peggio o meglio che sia il paese può deciderlo, alla sola condizione che se ne renda conto, che non se ne freghi o non si illuda che poi tanto non lo fa…
E allora veniamo al nocciolo della questione dello sciopero che c’è e non ci dovrebbe essere, quello dei giornalisti, e di quello che non c’è ma dovrebbe esserci, quello del paese. Che “regime” c’è nel cuore, nella testa, nelle fibre, nella coscienza, nell’intelletto, nella qualità civile degli italiani? Un “regime” che dice purtroppo senza tema di smentita che se Berlusconi avesse potuto regalare cento euro al mese di tasse in meno per ciascuno, le intercettazioni le avrebbe potuto anche cancellare e pure istituire il ministero della “Stampa ottimista e rispettosa”. Lo avrebbe potuto fare senza strepiti e clamori, con successo di pubblico e di critica. Se fatica a farlo, se forse s’incarta, è perchè le tasse non le può abbassare e la spesa pubblica la deve tagliare. Contro questo “regime”, contro questa “costituzione materiale” sostanzialmente accettata e condivisa dal paese, non c’è sciopero di giornalisti che tenga e non c’è possibile sciopero del paese. I connotati della democrazia liberale, con annesso corollario di magistratura indipendente e stampa libera da autorizzazioni, sul mercato della pubblica opinione valgono poco.
Non fosse così, ci sarebbe “sciopero” contro la regola delle intercettazioni possibili solo per 75 giorni. E perchè 75 o 6o o 12o o duemila? Non è il numero che conta, è l’idea manifesta che le intercettazioni sono un fastidio da contenere, un’arma da spuntare in mano ad un avversario: il controllo di legalità. Non fosse così, sarebbe quello che dovrebbe essere: lo sciopero di tutti. Quello dei giornalisti è nella migliore delle ipotesi un pallido e insipido surrogato.