Il dibattito sulla patrimoniale che ha incendiato una parte del mondo politico sembra quasi una tempesta perfetta: studiata a tavolino, lanciata con un tempismo incredibile, totalmente inutile e suicida per la sinistra. Una palla passata a Silvio Berlusconi per andare sicuro in gol, un dibattito inutile, in un tempo e in modi del tutto sbagliati.
Che possa trattarsi di una trappola studiata a tavolino da Berlusconi nelle sue notti insonni post bunga bunga non è un’idea così folle. Berlusconi è un genio, del male quanto volete ma è un genio e dà il meglio quando è nello sprofondo di una crisi. Berlusconi sa che la possibilità di elezioni anticipate da lui prima usata come una clava minacciosa e ora da lui temuta come l’acqua santa dal diavolo è tutt’altro che remota e sa anche che, al di là di quel che dicono i sondaggi, la vicenda Ruby ha scosso i moderati, suo naturale serbatoio di voti, più di ogni altro scandalo che lo abbia coinvolto in passato.
Ci voleva una scossa forte, ci voleva un diversivo scioccante: cosa di meglio della minaccia di una tassa sulla casa, già tanto vessata dall’apparato fiscale (perché è una delle poche cose che non si possono nascondere). In realtà nelle faustiane notti di Arcore e di palazzo Grazioli a Roma dove certamente Berlusconi ha messo a punto la sua strategia, l’operazione è a tenaglia, come solo un appassionato di studi di storia militare quale Berlusconi è può immaginare. Così, mentre la classe media italiana vive nel terrore di un esproprio proletario da parte nei neo comunisti, arriva Berlusconi che addirittura cambia la costituzione per dare un segnale di liberalismo in un paese incrostato di leggi secolari che lo incatenano: meno male che Silvio c’è. Peccato che si tratta di un imbroglio degno dei pataccari che vendono pezzi di Colosseo o di Pompei o dei Muro di Berlino ai turisti, anzi c’è la probabilità che siano autentici quei frammenti è superiore alla possibilità che serva a qualcosa cambiare con nuove affermazioni di principi altrettanto vaghi quanto vuoti una innocua norma che non ha mai dato fastidio a nessuno.
Per rendere efficiente l’Italia ci vuole un lavoro di anni che non riguarda solo lo Stato, ma le Regioni, i Comuni, tutti impegnati con leggi e regolamenti che hanno il solo scopo di giustificare il mantenimento in vita di una elefantiaca quanto inutile burocrazia. La prova che si tratta di una operazione di pura facciata è che questo stesso governo guidato da Berlusconi ha dato il via libera, e la sostiene, a una riforma dell’ordine degli avvocati che è stata definita da un moderato di sinistra, Pietro Ichino, come “l’esatto contrario di una liberalizzazione”. Se Berlusconi credesse “davvero nella sferzata liberalizzatrice che propone la prima occasione sarebbe proprio questa: cooperi a riaprire il confronto a Montecitorio sulla riforma forense.”
A rendere l’ipotesi appena delineata il parto di una fantasia malata e a rendere ancora una volta d’obbligo un tributo a Berlusconi per il suo fiuto politico e la capacità di reazione degna del suo Ibrahimovic è però il fatto che a lanciare e a sostenere l’idea di una patrimoniale sono state e sono persone di altissima levatura professionale, morale e politica e questo fa pensare che l’ingenuità è la prima conseguenza dell’entusiasmo e della generosità, il suicidio politico è figlio dell’impeto morale, che prevale sull’interesse di parte.
L’idea, per nulla sbagliata in astratto, di tassare con una imposta patrimoniale quel dieci per cento di italiani che detengono quasi metà del patrimonio del paese, per migliorare in modo strutturale il livello del debito nazionale, è stata lanciata da personaggi del calibro di Giuliano Amato, ex primo ministro dei tempi del partito socialista di Bettino Craxi, del quale era uno dei più stretti collaboratori; Pellegrino Capaldo, già presidente della Banca di Roma in coppia con Cesare Geronzi, Walter Veltroni, che è una fine mente politica nonostante le tre sconfitte elettorali cui a guidato il suo partito contro Berlusconi. Poi l’idea è stata sostenuta sul Corriere della Sera da un giornalista dello straordinario calibro di Massimo Mucchetti e poi ancora difesa sul Riformista da Pietro Ichino.
Quel che più sconcerta è che le ultime uscite, quelle di Ichino, sono successive alla sparata contro la patrimoniale da parte di Berlusconi, che ha avuto facile gioco nel dire che mai lui l’avrebbe permesso. Invece dall’area della sinistra si leva una voce critica: è Luca Ricolfi, che su La Stampa bolla l’ipotesi di tassare casa (Capaldo) o ricchezza (Veltroni e Amato) come la “peggiore delle mosse autolesioniste in cui il Pd si poteva infilare”.
Come ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa, con secolare saggezza siciliana, norme fiscali come la patrimoniale si applicano ma non si annunciano.
Il gioco lo si è visto abbastanza trasparente nella micro-arena televisiva di Ballarò martedì sera, con Maurizio Lupi, che rappresentava il partito di Berlusconi, a insistere con il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che la patrimoniale era un’idea della sinistra e con lo stesso Bersani, spalleggiato dal bravissimo Giovanni Floris, a divincolarsi in tutti i modi e a rilanciare in campo avverso le accuse, sostenendo che proprio l’attuale governo Berlusconi – Tremonti sta introducendo una serie di misure che hanno tutto della patrimoniale tranne il nome.
Bersani ha dalla sua una serie di ingenuità commesse nel passato, come la lotta ai tassisti finita con i tassisti più forti e costosi di prima e la guerra dichiarata gli ordini conclusa con l’estensione del famigerato medievale italico istituto anche alle pedicure e ai dj. Ha anche quella parlata piacentina, risciacquata manzonianamente a Bologna negli anni di presidenza della Regione Emilia, che talvolta lo rende un po’ troppo simile al dottor Balanzone. Ma la gente delle sue parti, l’estrema Emilia che confina con Liguria e Toscana e che nei secoli è stata indenne dal dominio pontificio ma non a quello di feudatari potenti e prepotenti, ha sviluppato un elementare sesto senso per le fregature, come appunto la storia della patrimoniale è.
Bersani, al di là di tutte le battute sul “mandare a casa Berlusconi”, per ottenere titoli sui giornali e ingraziarsi il suo elettorato, ha troppa esperienza politica per non essere consapevole del fatto che molto mare divide le speranze di metà degli italiani e la realtà. Sa anche che una campagna elettorale impostata su una tassa patrimoniale è destinata a portare la sinistra a una sonora sconfitta: oggi si dice di tassare il 10 per cento dei cittadini, ma il restante 60 per cento che almeno un appartamento possiede o un alloggetto a Spotorno o a Paola, sarebbe facile preda di una propaganda sul tema: i comunisti vogliono portarvi via la vostra casa.
Purtroppo Bersani non è immune da un vizio molto diffuso tra noi italiani, la superficialità e così, come punge Franco Bechis su Libero, nei giorni sotto Natale si è lasciato indurre a sottoscrivere una proposta di legge di qualcuno del suo partito che suona molto preoccupante per la maggior parte degli italiani. Ma evidentemente si è reso conto in tempo dell’errore e ha fatto un balzo indietro.
E non c’è dubbio che alla fine la vicenda della patrimoniale rischia di diventare una guerra tra poveri, una specie di riedizione della tassa sul macinato che alcuni sceneggiati televisivi di questi tempi rievocano. Nessuno, nemmeno Nichi Vendola né l’odiato Vincenzo Visco, il tosatore delle stock option, ha finora avuto il coraggio di dire di aumentare l’aliquota, oggi attorno al 20 per cento, della cedolare secca sui dividendi che i padroni si intascano, per non parlare delle imposte sulle società, consapevoli che nel mondo di oggi anche le condizioni fiscali fanno parte della capacità di un paese di attrarre investimenti.