Oggi è il 2 giugno, fanno 64 anni dal referendum che nel 1946 portò alla abolizione della monarchia e alla nascita della Repubblica italiana. Parte monarchica ha sempre sostenuto che ci furono brogli e che il voto del Meridione ci avrebbe conservato il re se non fosse stato per quell’alessandrino (di Tortona) di Giuseppe Romita, socialista e ministro dell’Interno, che a un certo punto della notte taroccò le schede.
San Romita, dovremmo dire, se fosse vero, perché riesce difficile immaginare l’Italia sotto un re cantante o anche sotto suo padre, il cui passaggio nelle patrie galere ha lasciato incancellabili prove di arroganza e disprezzo delle istituzioni.
Senza democrazia, la democrazia piena della repubblica, l’Italia sarebbe molto più povera e certamente lo sarebbe quel sud che forse, in qualche angolo, la rimpiange ancora.
Ma questa del due giugno 2010 non è una gran festa, anche se a Roma c’è la parata militare e in cielo fanno le acrobazie le Frecce Tricolori.
Sono nell’aria segnali di involuzione autoritaria, come si diceva una volta, di intolleranza culturale e politica che non si manifestano certo nei proposti e subito abbandonati tagli a tante cose che di culturale hanno il nome ma di parassitario il cognome, in un paese dove peraltro chi non prende almeno un euro dallo Stato costituisce probabilmente una minoranza protetta.
I segni preoccupanti vengono dalla scuola, la scuola che forma generazioni sempre più ignoranti, parcheggio di manodopera culturale a basso costo e di giovani senza voglia di responsabilità, che rifiutano il lavoro e vogliono il posto fisso, in un paese dove milioni di stranieri, per nostra fortuna, gettano le basi per il nostro futuro.
La scuola che dà i brividi è quella che mette sotto inchiesta degli studenti perché hanno cantato Bella ciao, la canzone che è diventata un po’ un simbolo, nel mondo, della Resistenza italiana. Se la canta Michele Santoro in televisione dà i brividi dall’altra parte, perché vedere un signore che veste Armani e guadagna milioni di euro come un esponente della Resistenza appare un po’ una forzatura e anche un’offesa per quei giovani che rischiarono la pelle, sfidando il plotone d’esecuzione, per tutte le ragioni che confluirono nella Resistenza, dal rifiuto degli ufficiali monarchici all’occupazione tedesca, al sogno rivoluzionario dei comunisti.
Se però a cantare Bella ciao sono degli studenti, la cosa commuove, perché significa che in un paese senza memoria un filone carsico di valori sopravvive. Emerge quando capita e se questo accade in una manifestazione pubblica del Ministero non c’è da indignarsi, c’è da compiacersi.
Una preside che dice indignata: dovete scusarvi, è segno di un nuovo conformismo, con una aggravante, la poca conoscenza delle regole cui richiama genitori e studenti la signora Carla Costetti, capo della scuola media Belli di Roma, con uno zelo degno di miglior causa, come sarebbe l’attenzione ai congiuntivi e agli apostrofi.
Le regole dicono che l’Italia è nata dalla Resistenza, l’Italia dice che il fascismo non deve tornare più. Non sono due valori contrapposti, sono due assoluti: si può essere d’accordo o meno, ma questa è la legge fondamentale dello Stato.
Lo hanno capito meglio gli ex fascisti, che lo hanno nell’insieme rinnegato e per fortuna anche gli ex comunisti, anch’essi ormai ridotti a minoranza protetta.
Si può concordare sul fatto che la Resistenza non è un valore nazionale universale: mezza Italia ha vissuto solo pochi mesi di occupazione tedesca, il monopolio cutlurale di fatto del partito comunista sulla resistenza ha in parte legato al destino del partito il destino di una ribellione che ha visto uniti monarchici, cattolici, massoni e anche comunisti, così come l’egemonia comunista sulla sinistra ha contribuito alla caduta della sinistra presso gran parte della ex classe operaia.
La Resistenza è stata molto di più, è stata un vasto movimento, per quanto minoritario, nazionale e un politico capace come il leghista Luca Zaia magari estremizza nella sua polemica anticomunista ma certamente contribuisce a renderla più nazionale.
Non dobbiamo scordare che il nostro benessere di oggi si fonda, almeno in parte, sul sacrificio di quella minoranza andata in montagna e anche di quei tanti che subirono il campo di concentramento nazista per non ingrossare le file dell’esercito repubblichino. Le ragioni sono anche altre: una classe dirigente pre fascista pronta a rimettere in piedi, pur con molti errori che ancora paghiamo,lo Stato; gli aiuti del piano Marshall; la minaccia sovietica; i pochi sbocchi nel mondo per i surplus finanziari americani, cui si sono aggiunti, negli anni successivi, la ripresa economica del nord Europa, che ha risucchiato in un vortice di benessere il nord Italia, la redistribuzione del reddito nel Meridione, la formula di economia mista adottata dalla tanto bestemmiata democrazia cristiana, esempio di successo di socialismo democratico. Che sia stato un esempio di successo lo dimostra il fatto che i paladini del mercato, negli anni della contro rivoluzione, sono stati capaci sì di trasferire ai grandi investitori internazionali il controllo delle ex aziende di Stato italiano, ma non sono stati capaci di creare un migliore modello di mercato.
Il discorso porterebbe lontano, ma la conclusione è: se ci sono dei ragazzi che, a Roma, non a Boves (Cuneo) vogliono ricordare, usare le parole della preside della Belli è un cattivo esempio e una pessima scuola.
