ROMA – Il mandato di parlamentare è incompatibile con un incarico in qualsiasi consiglio di amministrazione di enti che agiscano direttamente o indirettamente per conto dello Stato. Lo stabilisce una legge del 1953, allegramente ignorata nel caso della promozione del deputato Maria Grazia Siliquini cui è stato assegnato un posto nel cda di Poste Italiane. La nomina è stata oggetto di numerose critiche: c’è chi vi ha voluto vedere (non senza qualche ragione) un clamoroso risarcimento alla signora eletta nel Pdl, quindi passata in Fli con Fini, infine tornata all’ovile tramite trasloco al gruppo dei Responsabili. “La faranno responsabile del settore raccomandate” ironizzava Italo Bocchino. Ma le battute, più o meno riuscite rientrano nel gioco, spesso al massacro, della competizione politica.
Il fatto grave, che riguarda il profilo istituzionale della scelta, è che non sarebbe mai dovuta avvenire, non senza previo o almeno concomitante annuncio di dimissioni da parlamentare da parte della Silquini. D’altra parte questo è il paese dei doppi incarichi, del cumulo di mandati e dove l’incompatibilità – sottolinea Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – “è ormai solo un fastidioso orpello” e “dove le società pubbliche sono lo scivolo d’oro per deputati e senatori”. Basta ricordare il caso dell’ex senatore leghista Dario Fruscio, per due anni nel cda Eni e parlamentare. O di Giuseppe Vegas, viceministro, deputato e presidente Consob. O il presidente della Provincia di Varese Dario Galli, nel cda Finmeccanica.
La beffa finale si consuma generalmente proprio in Parlamento: anche in presenza di dimissioni la giunta per le elezioni preferisce esercitarsi in un eterno gioco al rimpiattino piuttosto che deliberare. Così il nominato “di frodo” resta, anche per anni, alla faccia dell’art. 2 della legge del febbraio 1953.