Meno male che Tremonti c’è, altro che Silvio. Meno male che il ministro del Tesoro i soldi li nega o li centellina. Perchè i soldi che stavolta gli hanno chiesto non sono come si racconta “per lo studio e la ricerca”. Sono soldi per un colossale e dannoso “condono professionale”. Sono due miliardi e trecento milioni per lasciare l’Università così com’è, con tutta la sua inefficienza e sostanziale inutilità. Altro che soldi per la riforma dell’Università. Sono soldi per finanziare una “fabbrica di posti” e non una fabbrica del sapere e della competenza.
Si chiama “ope legis” e vuol dire che si ottiene un posto, fisso, nella scuola e nell’università per “legge di sanatoria” e non per concorso, meriti, selezione, competenza, abilità. Da decenni la scuola italiana e l’italiana università arruolano “ope legis” come sa e fa finta di non sapere ognuno che nella scuola e nell’università lavora. “Ope legis”: è come stare in fila ad aspettare il bus che passa. Come il bus “l’ope legis” è lento e intermittente. Chi lo aspetta spesso, quasi sempre, si bagna e si infradicia sotto la “pioggia” della sua condizione di lavoratore precario. E’ un’attesa scomoda e snervante, umiliante e misera. Ma non disperata: prima o poi, più poi che prima, il bus “ope legis” arriva e, seppur stanchi e sfiniti, sopra ci salgono tutti. A turni, a scaglioni, ma ci salgono tutti. Senza alcun biglietto che non sia aver aspettato, senza alcuna “virtù” o attitudine professionale che non sia l’attesa. Con l’unico diritto di essersi messi in fila.
Con questo sistema è da decenni che si formano e si “sanano” i precari della scuola: 250mila. E’ un sistema per cui chiunque abbia deciso, per scelta e attitudine o anche solo per inerzia e pigrizia, di fare l’insegnante alla fine lo fa. Si diventa professori per via di supplenze accumulate, prima o poi “ope legis”. Talvolta si è costruito uno schermo, un alibi alla indistinta regolarizzazione senza qualità. Talvolta l’alibi è stato la frequenza a finti corsi di preparazione e specializzazione. Corsi che non selezionano e formano, corsi che fanno punteggio in graduatoria, come le supplenze. Cioè andare al corso non è esame e prova, setaccio e verifica del merito, andare al corso è “il merito”. Tra i 250mila attuali precari della scuola, come tra le centinaia di migliaia che li hanno preceduti nei decenni passati, ci sono ovviamente meritevoli e capaci. Ma ci saranno pure, non fosse altro che per evidente regola statistica, persone non adatte o non qualificate per insegnare. L’ope legis porta tutti dentro, fa prima o poi tutti professori. Con il risultato che la scuola imbarca il peso e la zavorra di personale non adatto e nocivo al percorso formativo. Anche quelli inadatti o incapaci ad insegnare sono persone in carne e ossa. Gente da non mettere sul lastrico, gente cui trovare e offrire un lavoro. Ma perchè e per forza, anzi “ope legis” quello di insegnante? Perchè la scuola deve per forza e per sempre essere quello che soprattutto oggi è: un’agenzia di collocamento gestita dai sindacati e dalla politica? Perchè un precario della scuola deve fare per forza l’insegnante a tempo e contratto indeterminato? Perchè è un suo diritto far quello e non altro? Perchè si confonde il vero diritto di queste persone ad avere un lavoro e un reddito con il loro falso diritto di “salire in cattedra”?
Non bastasse, il sistema degli “ope legis”, dei condoni professionali, ingiusti e nocivi come quelli fiscali, comporta il tutti assunti al minor salario possibile. Guadagnano poco gli insegnanti italiani, anche quelli bravi. Guadagnano poco anche perchè sono troppi e si moltiplicano, con ogni mezzo. Moltiplicati negli anni gli insegnanti di sostegno, dieci volte di più di quanto non crescesse il numero degli alunni bisognosi di sostegno. Inventata, letteralmente inventata, una “regola” pedagogica secondo la quale una classe non deve essere di più di una ventina di alunni, pena il decadimento della didattica e la capacità di apprendimento degli alunni. Gli organismi internazionali che monitorano i sistemi scolastici e formativi ignorano questa “regola” che viene spacciata come tale solo in Italia. Nei paesi scandinavi, ai vertici delle classifiche che misurano la validità dei sistemi scolastici, le classi sono in media di trenta alunni. Mentre il sistema scolastico italiano, grazie anche alla sua politica a rovescio delle risorse umane, cioè del personale docente, precipita nelle classifiche che misurano l’apprendimento non tanto e non solo della matematica, della storia, dell’italiano o delle lingue straniere, quanto quello delle “competenze per la vita”: la comprensione, la concettualizzazione, l’esposizione. Insomma il saper leggere e scrivere della mente, questo nella scuola italiana non si apprende più perchè sono tanti, anche se non certo tutti, che non sono in grado di insegnarlo.
E veniamo all’università, ai soldi che non ci sono, che Tremonti non scuce per la “riforma”. Anche all’università ci sono i precari, qui si chiamano ricercatori. Fanno una vita grama, pochi soldi. E fanno lavori che non spettano loro, come la didattica, il tenere lezioni, curare le tesi degli studenti, accollarsi perfino le pratiche burocratiche della facoltà. Dice, direbbe la riforma Gelmini che, dopo sei anni di questa vita, dura e precaria, i ricercatori che hanno prodotto tecnologia, cultura, scienza, ricerca e studi diventano professori. Professori assunti e in cattedra, professori di professione. Non tutti dice la riforma perchè ovviamente non tutti in questo mondo sono in grado di produrre cultura, ricerca, studi, scienza, tecnologia. Che male c’è, qual è la “mostruosità” di questa altrimenti ovvia e doverosa, utile e civile selezione e promozione? Il “male” c’è ed è che questa riforma contraddice e nega il metodo, l’aspettativa dello “ope legis”, del tutti dentro prima o poi. E allora i ventimila ricercatori si ribellano, vogliono, prima o poi, la cattedra “ope legis”.
A questo e non ad altro servono i due miliardi e trecento milioni in sei anni, 400 milioni l’anno per assumere, per dare un posto fisso ai primi novemila ricercatori. Ai “primi” cui seguiranno per forza e conseguenza tutti gli altri, basta aspettare. L’unica selezione e promozione la deve fare l’anzianità di attesa, l’unica competenza richiesta è la pazienza sommessa e conformista, conformista anche nella ricerca e nello studio. Pazienza di attendere con la garanzia che “l’ope legis” passerà. Se in sei anni salgono sul bus in novemila ciò stabilirà il diritto “ope legis” che gli altri saliranno dopo. Non sono soldi per la ricerca e lo studio, sono soldi per “condonare”, anche a chi non ce l’ha, la professionalità di docente universitario.
Soldi che oggi non ci sono. Dice Bossi di trovarli non mettendo le bombe negli arei militari italiani. Frase che piacerà anche al sindacato e anche alla sinistra alternativa. Frase popolare e di popolo, fa nulla che quelle bombe costano decine di milioni e qui si tratta di miliardi. Dice Bersani, con maggior senso del reale, di trovare quei soldi vendendo le frequenze tv liberate nell’etere dall’introduzione del digitale terrestre. Con i conti ci siamo, le frequenze valgono miliardi. Ma sono miliardi che finanzierebbero un condono, un “ope legis” e non la ricerca, lo studio o una riforma. Ci si lamenta della università dei “baroni”, baroni che rallentano la ricerca, che fanno dei ricercatori dei valletti, che fanno lobby a caccia di denaro pubblico e “famiglia” in facoltà. Ma i “baroni” di oggi sono già i precari di ieri, entrati in gran massa “ope legis”. Sono quelli che hanno moltiplicato le facoltà e i corsi di laurea per intercettare il denaro pubblico, solo per quello, senza nessun senso o scopo di ricerca o di studio. Reclutandoli “ope legis” alla fine si ottiene “baroni”. Su Repubblica c’è una vignetta di Massimo Bucchi: il pensoso personaggio riflette tra sè e sè e formula un pensiero: “Daranno più soldi per la ricerca…dei soldi”. Perfetta, geniale sintesi. Meno male che Tremonti c’è, fino a che e se regge.