In realtà, l’interpretazione ultraortodossa e violenta dell’Islam tipica dell’Arabia Saudita non è altro che una caricatura della religione. Per osservare il ruolo che l’islam può dare alle donne basta viaggiare nei molti paesi islamici, dall’Indonesia alla Tunisia, dove le donne non solo possono viaggiare e andare all’ospedale indipendentemente, ma perfino occupare posizioni ministeriali.
Nelle ultime settimane, i media occidentali hanno avuto un gran parlare delle sedicenti riforme politiche del monarca saudita. Il re Abdullah ha difatti deciso che nelle prossime elezioni municipali le donne avranno il diritto di voto e avranno perfino il diritto sedere alla Shura, assemblea consultativa. Dall’Italia fino agli Stati Uniti i giornali e le tv hanno mostrato la più grande compiacenza nel rilanciare i comunicati stampa di Riyadh. Un grande risalto è stato dato a dei questo avvenimento storico.
La potenza della comunicazione nasconde però la vuotezza delle riforme. Le concessioni del re sono difatti une mera operazione cosmetica capitata a puntino in una fase di agitazione popolare nel mondo arabo. Le donne, accedendo alla Shura o ai consigli municipali, non escono dalla loro segregazione.
L’Arabia Saudita, monarchia assoluta ereditaria, non ha organi democratici. I consigli municipali non hanno praticamente nessun potere e la Shura è un’assemblea consultativa, i cui componenti sono scelte dal re. Nella Terra delle due moschee finché le donne saranno «di qualcuno», finché saranno perseguitate per i loro abiti o per i loro incontri, finché saranno punite per essere state stuprate e finché saranno costrette a chiedere al marito il permesso di uscire – fosse pure per andare a votare – l’apartheid non potrà dirsi concluso.
