Timidamente il ministro Sacconi si ripara dietro l’Europa. Conferma l’idea, ma solo l’idea, di portare gradualmente, dal 2010 al 2018, l’età pensionabile delle donne che lavorano nel pubblico impiego da 60 a 65 anni. Ma dice che non è una scelta, piuttosto un obbligo. Insomma, lo chiede l’Europa e non il governo. Governo che si limita, spiega il ministro, a vedere quel che Bruxelles ci fa fare e quel che no. Quindi “nulla ancora di deciso”.
La timidezza governativa è di natura politica: si teme di “stressare” il pur robusto consenso al centro destra con una sia pur minima riforma delle pensioni. Anzi il governo si affretta a specificare che riforma non è e di riforma proprio non si parla. Per lasciare le cose come stanno la Cgil e, stavolta, anche la Cisl che perde il suo piglio riformista visto che la misura riguarda comparti lavorativi dove la Cisl stessa è fortemente rappresentata.
La timidezza governativa è poi anche di natura contabile: le donne del pubblico impiego a 65 anni consentirebbero un risparmio di spesa previdenziale di 1,5 miliardi all’anno. C’è chi pensa di dirottare questi fondi verso la condizione femminile: asili nido, congedi parentali…E chi guarda a quel miliardo e mezzo come possibilità di incremento dei fondi per il sostegno al reddito di chi perde il lavoro.