ROMA – E’ passata solo una settimana dalla sua elezione, ma Rodrigo Duterte non vuole perdere tempo in fatto di ordine e sicurezza. Il nuovo presidente filippino ha messo oggi in chiaro di voler reintrodurre la pena di morte – sospesa nel 2006 – e di estenderla a una serie di reati che vanno dal traffico di droga allo stupro. Un pugno di ferro largamente preannunciato in campagna elettorale, ma che oggi è stato accompagnato anche da una sorprendente apertura politica ai ribelli comunisti del centro-sud, che Duterte vorrebbe integrare nel governo ponendo fine a una guerriglia costata 40 mila morti negli ultimi quattro decenni.
“Chi distrugge le vite del mio popolo sarà ucciso. Chi distrugge le vite dei miei bambini sarà distrutto. Nessun compromesso, nessuna scusa”, ha detto Duterte (71 anni) in una conferenza stampa a Davao, la città di cui è stato sindaco per oltre vent’anni. “Ho promesso di salvare le prossime generazioni dal male rappresentato dalle droghe”, ha detto, data l’emergenza del problema sociale delle metanfetamine e dei crimini a esse legati, tale determinazione è stata una parte fondamentale del suo successo elettorale. Duterte ha specificato di voler istituire delle milizie armate da dislocare sul territorio provincia per provincia.
Gli squadroni della morte quand’era sindaco. Una proposta probabilmente ben accolta dal suo elettorato, ma che fa tornare in mente le squadre di vigilantes responsabili di almeno 1.700 esecuzioni sommarie di criminali nei suoi due decenni alla guida di Davao. Il risultato di ripulire la città dalle gang fu ottenuto – e valse a Duterte il soprannome “il castigatore” – ma secondo le organizzazioni per i diritti umani al prezzo di un’interminabile lista di abusi.
Duterte ha spiegato di essere favorevole all’impiccagione, considerando la fucilazione più disumana e per di più uno spreco di proiettili. Se in campagna elettorale alcuni pensavano che le sue dichiarazioni sulla “tolleranza zero” fossero solo boutade, gli ultimi scettici potrebbero ricredersi in fretta; d’altronde, parliamo di un presidente che nei comizi ha ammesso più volte di aver ucciso lui stesso dei criminali, sparandogli o – nel caso di un sospetto spacciatore – gettandoli da un elicottero. Lo sceriffo Duterte e le sue presunte prodezze da giustiziere sono finite in prima pagina sul New York Times.
La polizia avvisò il quattordicenne Bobby Alia che ci sarebbero state conseguenze a seguito dell’accusa di aver rubato un telefonino nel novembre 2003, ha dichiarato sua madre. Pochi giorni fu trovato morto, pugnalato alla schiena con un coltello da macellaio. Era il terzo figlio di Clarita Alia a morire a Davao, la città più grande del sud delle Filippine, omicidi rimasti insoluti. Un quarto figlio fu ammazzato nel 2007. Tutti erano stati accusati di reati, tutti furono pugnalati e tutti, accusa la madre, avevano ricevuto le stesse minacce dalla polizia.
Per anni i gruppi per i diritti civili hanno reclamato un’inchiesta per verificare se Rodrigo Duterte fosse coinvolto nell’assassinio di centinaia di persone a Davao dagli anni ’80 per mano di quelli che sono chiamati squadroni della morte. La polizia di Davao afferma che non ci sono prove che un’organizzazione di questo tipo esista. Non la stessa conclusione cui sono giunti Human Rights Watch, le Nazioni Unite e una commissione delle stese Filippine, e cioè che prove esistono eccome e che sono coinvolti funzionari della polizia e del governo. (Floyd Whaley, New York Times)