ROMA – Il G 20, un inutile rituale turistico per i grandi della Terra, apre a Brisbane, in Australia dominato dall’incubo della recessione che ancora tormenta una parte del mondo, specialmente l’Europa. Tutti pensano sia frutto delle politiche messe in atto dalla vecchia Europa sulla spinta della Germania che ha trasferito nella leva della finanza le aspettative un tempo poste nelle armate del Reich. Il risultato è meno funesto per le altre nazioni ma il vizietto tedesco sembra sempre quello lì.
“L’Europa torna sul banco degli imputati del G20”,
scrive Paolo Mastrolilli sulla Stampa di Torino:
“I dati di ieri sul Pil confermano che il Vecchio Continente è l’unico ancora immobile, dopo la crisi del 2008 […]. L’obiettivo dichiarato del vertice è il rilancio globale della crescita e del lavoro”.
E il presidente Usa Barack Obama, riferice l’agenzia di stampa Ansa, ha ammonito:
“In questi anni gli Usa hanno dato lavoro a più persone di tutte le economie sviluppate assieme. Ma non ci si può attendere che portino l’economia mondiale sulle loro spalle. Dunque il G20 ha la responsabilità di agire per stimolare la domanda, investire di più e creare posti di lavoro”.
Da quello del 2009 che doveva risolvere tutti i problemi,il cui comunicato finale ripeteva 11 volte la parola “sostenibile” e annunciava la ripresa quasi immediata sono passati altri G con numeri vari e soprattutto 5 anni di crisi sempre più feroce in Europa, mentre gli Usa si sono rimessi in piedi, a riprova che questi vertici costano solo montagne di soldi e non portano a nulla perché contano le decisioni prese dove risiede il potere di decidere e di determinare le azioni conseguenti.
Ci sono altri temi che aleggiano sul G20 o sono in agenda, dalla crisi di Putin al terrorismo della Isis, dall’ambiente alla lotta ai paradisi fiscali.
Proprio il tema dei paradisi fiscali dimostra la costosa inutilità di questi G20: l’Europa è oggi guidata da Jean-Claude Juncker, fino a ieri primo ministro del Lussemburgo, uno dei paradisi fiscali leader al mondo.
Principale “obiettivo dichiarato”, secondo Paolo Mastrolilli,
“è far aumentare il Pil globale del 2% entro il 2018, e se questo resta il tema centrale, non c’è dubbio che l’Europa interpreterà il ruolo del grande malato. Lo confermano fonti che hanno lavorato all’agenda, e notano come il nostro continente sia quello rimasto più indietro dal 2008”.
[…Secondo ] gli americani gli investimenti nelle infrastrutture proposti dalla cancelliera tedesca Merkel non sono adeguati, e anche i 300 miliardi promessi dal presidente della Commissione Ue Juncker sono poco significativi, perché sono 100 all’anno, quindi solo lo 0,6% del Pil, e al momento non stanno nemmeno davvero sul tavolo.
La Merkel non accetterà di finire sotto processo, ma il documento finale del vertice cita la parola crescita 17 volte, e non c’è dubbio che la sua insistenza sull’austerità venga vista come l’ostacolo principale in Europa.
Gli americani vorrebbero finalizzare l’accordo per gli scambi commerciali T-TIP, che varrebbe parecchi soldi anche per le nostre imprese, ma ora frenano soprattutto gli europei per motivi «ideologici», tipo l’opposizione degli ambientalisti tedeschi. Il successo dei repubblicani alle elezioni midterm paradossalmente aiuta Obama a concludere il negoziato, ma se non si fa ora cominceranno le presidenziali e se ne riparlerà solo nel 2017.
Gli Usa poi vorrebbero meno burocrazia europea, più velocità di esecuzione, liberalizzazioni, riforme del lavoro. Molti rimedi a questo punto sarebbero provvedimenti di microeconomia: i paesi del G20 ne hanno già individuati circa mille da varare subito per favorire la ripresa e contrastare la deflazione, che «insieme con i debiti è rimasta come eredità della Grande recessione del 2008».
L’Italia a parole sarebbe sulla linea americana della crescita, che offre al premier Renzi una sponda preziosa per premere sulla Merkel al fine di liberare gli investimenti. Il dubbio resta quanto delle riforme proposte il governo di Roma riuscirà davvero a realizzare”.