L’invito americano a israeliani e palestinesi per avviare colloqui di pace diretti tra due settimane è stato subito accettato da entrambi i governi, ma senza grandi illusioni. C’è poca fiducia, quasi nessuna, da entrambe le parti, che l’obiettivo dell’amministrazione di Barack Obama di raggiungere un accordo comprensivo in un anno possa verificarsi.
Invece si ha la sensazione di un rassegnato fatalismo. La maggioraza degli analisti vede i colloqui come un confronto tra chi non vuole e chi non può: da una parte una forte coalizione di destra israeliana guidata dal premier Benjamin Netanyahu che non ha alcuna intenzione di raggiungere un accordo, dall’altra una relativamente moderata leadership palestinese che è troppo debole e divisa per farlo.
”Questi negoziati diretti sono l’opzione dello zoppo e dell’impotente”, ha detto Zakaria al Qaq, un palestinese moderato vice presidente dell’ Al Quds University, quando gli è stato chiesto un parere. ”E’ un atto di auto-inganno che non porterà a nulla”. E Nahum Barnea, il più autorevole columnist israeliano, ha dichiarato: ‘La gran parte degli israeliani ha deciso che non ci sarà alcun risultato e che i colloqui non incideranno sulle loro vite. Quindi perchè dovrebbero essere interessati”?
Che un tono così sprezzante venga non dai fautori del rifiuto di un accordo – gli islamici di Hamas che governano Gaza e la leadership dei coloni israeliani in Cisgiordania – ma da pensatori moderati dà la misura dell’umore che precede i colloqui voluti da Obama.
Yossi Beilin, per esempio, che ha lasciato la politica nel 2008 dopo essere stato un membro di sinistra del parlamento e ministro governativo, ritiene che Obama abbia sbagliato nel fissare il traguardo di un anno senza che poi vi siano conseguenze. ”Credo che questo sia un enorme sbaglio da parte dell’amministrazione”, ha detto, ”perchè non esiste nessuna possibilità al mondo che in un anno, o due, o tre la pace possa essere raggiunta. Il vuoto tra le due parti è troppo esteso. Netanyahu non è certo andato al potere per dividere Gerusalemme o per trovare una soluzione al problema dei profughi palestinesi”.
Da parte palestinese neanche la leadership è entusiasta. Mahmoud Abbas, il presidente, ha passato lo scorso anno e mezzo resistendo alle offerte di Netanyahu di sedere ad un tavolo assieme senza precondizioni. Abbas ha ripetutamente detto che anni di simili colloqui diretti non hanno portato ad alcun accordo, ma solo la lenta e costante perdita della Cisgiordania con i suoi insediamenti israeliani.
Questa è la ragione per cui i palestinesi vogliono solo colloqui indiretti sotto l’egida degli americani. Ma Abbas non ha ottenuto quello che voleva e l’amministrazione Obama lo ha spinto verso i colloqui diretti. E ora viene criticato per aver accettato da una posizione di debolezza.
”Davanti alla sua intera comunità Abbas è nudo”, rilerva Mahdi Abdul Hadi, presidente della Società Accademica per lo Studio degli Affari Internazionali, un istituto indipendente a Gerusalemme orientale, ”tutti sanno cher questo governo israeliano non concederà nulla”.
Nonostante la natura finora intrattabile di questi problemi, ci sono alcuni che hanno fiducia nei prossimi colloqui. Dore Gold, un ex-dplomatico molto vicino a Netanyahu, ha detto che i negoziati ”possono essere importanti a condizione che non vengano attraversate le linee rosse di Israele. Devono emergere idee creative che interessino i bisogni fondamentali di entrambe le parti.
Le linee che considera rosse sono la necessità che Gerusalemme rimanga unita sotto la sovranità israeliana, e il mantenimento del controllo israeliano in Cisgiordania lungo il confine del Giordano per prevenire il passaggio di armi. Entrambi questi punti sono sati finora completamente respinti dai palestinesi.
Haim Assa, che è stato consulente del premier Yitzak Rabin negli Anni Novanta e che continua a consigliare i leader centristi, ha dichiarato che sebbene i colloqui siano tra israeliani e palestinesi, il potere perchè abbiano successo è nelle mani degli americani. ”I principali partecipanti sono gli Stati Uniti”, ha detto, ed ha aggiunto: ”Essi hanno tutte le carte in mano. Quando gli Usa lasceranno l’Iraq vorrano mettere insieme una coalizione formata da Israele, Giordania, Egitto e i palestinesi. I prossimi colloqui mirano a questo. Se forzano la mano e prendono le cose seriamente, gli americani ce la possono fare”