Le ruspe si sono rimesse in moto nelle colonie ebraiche della Cisgiordania e il loro rumore rischia di sovrastare gli appelli di chi ancora spera in un rilancio del processo di pace israelo-palestinese. A confermarlo sono i dati di un rapporto reso noto oggi, 21 ottobre, secondo cui almeno 544 nuovi alloggi sono già in costruzione ad appena tre settimane dalla fine della moratoria edilizia – parziale – imposta per 10 mesi negli insediamenti fino al 26 settembre scorso, ma poi non prorogata dal governo israeliano di Benyamin Netanyahu.
Il rapporto, realizzato sulla base di informazioni fornite dalle stesse imprese di costruzione, rivela che gli scavi sono ripartiti sicuramente in 16 colonie su un totale di circa 120. In cifra assoluta non si tratta di grandi numeri, ma in termini relativi il ritmo appare quasi forsennato: quattro volte più rapido rispetto a quello delle attività edilizie ordinarie registrate nelle colonie nei due anni precedenti alla moratoria, denunciano indignati i pacifisti israeliani di Peace Now.
Un’autentica provocazione agli occhi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che di recente ha sospeso la partecipazione ai negoziati diretti con Israele – riavviati il 2 settembre grazie alla mediazione dell’amministrazione Usa – proprio a causa del rifiuto di Netanyahu di estendere i termini dello stop edilizio nei Territori. ”E’ un dato allarmante che conferma come il governo israeliano non sia realmente impegnato a portare avanti un processo di pace il cui scopo dovrebbe essere la fine dell’occupazione”, ha commentato a caldo da Ramallah Ghasan Khatib, uno dei portavoce del presidente dell’Anp, Abu Mazen.
”Questo comportamento è una sfida plateale a noi palestinesi e agli arabi, ma anche agli Usa”, gli ha fatto eco più tardi un altro portavoce, Nabil Abu Rudeina, invitando ”la comunità internazionale e soprattutto Washington a reagire”. Magari annunciando fin d’ora – auspica l’ex rappresentante dell’Olp in Italia Nemer Hammad – ”il riconoscimento dello Stato palestinese (futuro) entro i confini del 1967”: ossia con l’inclusione di tutta la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Affondi a cui il premier israeliano ha evitato di rispondere direttamente, limitandosi a minimizzare la portata dei lavori in corso in Cisgiordania e di quelli appena autorizzati (non senza altre polemiche) a Gerusalemme est, laddove il suo governo non ha mai accettato alcuna moratoria formale.
La costruzione di singole case ”negli insediamenti già esistenti non intralcia la possibilità di un negoziato”, ha sostenuto Netanyahu in un discorso tenuto in memoria del predecessore laburista Yitzhak Rabin, ucciso nel ’95: figura i cui accordi di pace egli – da leader della destra – avversò aspramente in vita e del quale tuttavia si dice ora pronto a seguire il cammino negoziale. Un cammino che ”non ha alternative”, ha ripetuto ieri sera da Washington il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Ma su cui gli sviluppi sul terreno (in Cisgiordania e a Gerusalemme est) rischiano di pesare come ostacoli insormontabili, ha avvertito poche ore più tardi una delegazione di vecchi ‘saggi’ guidata da Jimmy Carter e Mary Robinson, protagonisti oggi a Gerusalemme d’un confronto assai poco diplomatico con lo speaker del parlamento israeliano (Knesset), Reuven Rivlin.
Dalle opinioni pubbliche, del resto, non arrivano segnali incoraggianti. Come testimonia un ultimo sondaggio stando al quale appena un 5% di palestinesi e un 6% di israeliani appaiono disposti oggi a considerare alte le prospettive di un accordo quale che sia.