Il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha ribadito ieri l’opposizione del suo governo a qualsiasi riferimento preliminare ai confini del 1967 (in base ai quali un futuro Stato palestinese dovrebbe comprendere tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est) quale piattaforma della ripresa di negoziati diretti coi palestinesi. Lo rivela oggi la stampa israeliana, osservando come questa posizione rappresenti un’ipoteca negativa sugli sforzi condotti dagli Usa per trasformare gli attuali colloqui indiretti (proximity talks) in una più seria trattativa faccia a faccia fra le parti e rischi di spegnere sul nascere ogni spiraglio d’ottimismo.
Incontrando ieri l’emissario americano, George Mitchell, Netanyahu, si è mostrato in sintonia con Washington sulla necessità di far ripartire il negoziato diretto. Ma ha confermato che questo deve avvenire ”senza precondizioni”, sottolineano oggi Haartez e Maariv. In sostanza, secondo i media, si tratta di un ‘no’ al presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen (Mahmud Abbas), il quale – spinto dalle pressioni americane – pare aver rinunciato alla richiesta preventiva di un congelamento pieno di tutti gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est, ma vorrebbe almeno un segnale di garanzia dalla comunità internazionale prima di sedersi allo stesso tavolo con Netanyahu e di accettare ciò che la sua opinione pubblica interna paventa come un cedimento totale.
Segnale che dovrebbe tradursi in particolare in una reiterazione formale da parte del Quartetto (Usa, Russia, Ue, Onu) d’una dichiarazione recente che impegna i quattro a fissare una scadenza negoziale di 24 mesi e a mettere in agenda sia il tema del congelamento sia il richiamo ai confini del ’67. La richiesta palestinese è stata accolta come un progresso da Mitchell e dovrebbe essere discussa a breve in sede di Quartetto malgrado le riserve israeliane. Ma l’eco pubblica delle resistenze di Netanyahu – commenta oggi la stampa – potrebbe rendere tutto ancor più complicato.