BEIRUT, LIBANO – Almeno 60mila persone, tante quante possono affollare le tribune e le curve di uno stadio da calcio, sono state uccise in Siria in venti mesi di repressione e violenze: è il dato inedito e scioccante diffuso dall’Onu.
A queste vittime se ne aggiungono altre cadute in due diverse stragi compiute da raid aerei governativi attorno a Damasco su civili in fila al panificio in attesa della quotidiana razione di pane e su una stazione di benzina. Si è poi appreso che nel nord-ovest del Paese è stato rapito sei settimane fa il giornalista freelance americano James Foley, che lavora per l’agenzia France presse e per il sito GlobalPost.
Foley, esperto di scenari di guerra e che in Libia era stato rapito per 44 giorni da miliziani pro-Gheddafi è scomparso assieme ad un altro collega di cui non sono state rese note le generalità per volere della famiglia. I due facevano parte di un gruppo composto anche da un traduttore e un autista, poi rilasciati. Secondo le prime indiscrezioni, il 22 novembre scorso quattro uomini armati hanno prelevato Foley e gli altri tre compagni nei pressi di Taftanaz, nella regione di Idlib.
La vicenda di Foley riporta d’attualità quella dell’ingegnere italiano Mario Belluomo, rapito nella Siria centrale ai primi di dicembre; di un altro giornalista freelance americano, Austin Tice, probabilmente nelle mani dei lealisti; e della collega ucraina Ankhar Koncheva, rapita invece dai ribelli a Homs perchè accusata di essere una spia russa.
La giornata di mercoledi era cominciata con una prima strage: due barili-bomba erano stati sganciati in mattinata da velivoli militari su Muaddamiya, sobborgo a sud-ovest della capitale, nei pressi di un panificio dove si accalcavano famiglie in attesa per la razione giornaliera di pane. Gli uccisi sono dodici, secondo gli attivisti locali, e tra le vittime ci sono anche bambini. L’informazione non può però essere verificata in maniera indipendente sul terreno. Così come non può essere verificata l’esattezza del bilancio riportato da testimoni oculari di un’altra strage, assai più drammatica, avvenuta a Mliha, sobborgo a est di Damasco, nei pressi di una stazione di benzina.
Missili sparati da Mig governativi – affermano gli abitanti – hanno centrato una fila di veicoli che facevano la fila al distributore, dove per la prima volta era arrivata la benzina dopo quattro giorni di attesa. Fonti locali parlano di oltre 30 morti e i Comitati di coordinamento di Mliha hanno mostrato foto raccapriccianti della scena del massacro: corpi carbonizzati fino alle ossa, brandelli di esseri umani, corpicini di bambini dilaniati. Impossibile però conoscere i dettagli di questo ennesimo crimine compiuto in Siria.
E a Ginevra l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay, ha reso noto che dal 15 marzo 2011, data convenzionale dell’inizio della repressione contro le manifestazioni antigovernative pacifiche, fino al 30 novembre scorso, in Siria sono morte 59.648 persone. “Non essendosi fermato il conflitto dalla fine di novembre 2012, possiamo desumere che agli inizi del 2013 i morti abbiano superato quota 60 mila. E’ un numero scioccante”, ha aggiunto Pillay.
L’Alto Commissariato Onu ha messo al lavoro per cinque mesi esperti chiamati a incrociare i dati di sette fonti diverse. Il risultato è stato un rapporto “esaustivo” in cui emergono le generalita delle 60 mila vittime con la relativa circostanza dell’uccisione. Finora, il bilancio più pesante era quello fornito dell’Organizzazione nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), piattaforma anti-regime basata a Londra, secondo cui dal marzo 2011 ad oggi sono state uccise circa 45mila persone.
Altri bilanci parlano di almeno 39.000 morti ma, contrariamente all’Ondus, non tengono conto delle vittime tra le forze fedeli al presidente Bashar al Assad. Nel bilancio odierno dell’Alto Commissariato Onu non si precisa tuttavia l’appartenenza confessionale, la affiliazione politica di ciascuna vittima, nè si informa se la persona uccisa è un militare, un miliziano o un civile.
