L’avvocato Fethiye Cetin era ancora una studentessa di legge quando venne a sapere che la nonna Seher era nata e cresciuta nell’Armenia cristiana per poi diventare, con la forza, turca e musulmana. Era stato un ufficiale turco a strapparla dalla madre nel 1915, durante il genocidio degli armeni da parte dei turchi.
Questo vero e proprio Olocausto, che gli armeni lottano da anni perché sia universalmente riconosciuto come tale, portò ad un milione e mezzo di morti: avvenne tra il 1915 e il 1918 dopo la caduta dell’Impero Ottomano.
Il nome di Seher, quando era bambina in Armenia, era Heranus: è stata direttamente lei a raccontare la storia alla nipote. Heranus era una delle migliaia di bambini che nei villaggi distrutti vennero rapiti ed adottati da famiglie turche.
«Sono stata sotto shock per un lungo periodo – racconta Fethiye Cetin – ho visto improvvisamente il mondo con occhi diversi. Ero cresciuta pensando come una turca musulmana, non come un armena. Sui libri di storia non c’era mai scritto nulla sul massacro di un popolo che è stato cancellato dalla memoria collettiva della Turchia. Come mia nonna, molti avevano sepolto insieme agli orrori che avevano visto la propria identità».
La Cetin oggi fa l’avvocato ed è un membro di spicco dei 50mila turco-armeni che chiedono risarcimenti economici ed una reale riconciliazione tra le due nazioni: «La Turchia e l’Armenia possono finalmente affrontare i fantasmi della storia e forse anche superare una tra le rivalità più durature e amare del mondo».
Intanto, uno dei primi passi verso la riconciliazione è avvenuto nel mese di ottobre dello scorso anno su un campo di calcio della città di Bursa, nella Turchia nord-occidentale. All’incontro sportivo ha assistito anche il capo dello Stato armeno Serzh Sarkisian. Un anno prima, era stato il Presidente turco Abdullah Gul a recarsi in Armenia per veder giocare le due nazionali. Gul a ottobre aveva detto a Sarkisian: «Noi qui non stiamo scrivendo la storia, la stiamo facendo».
L’incontro di Bursa è avvenuto pochi giorni dopo la firma di una serie di protocolli che hanno lo scopo di ristabilire delle relazioni diplomatiche riaprendo anche il confine turco-armeno chiuso dal 1993. All’accordo, fortemente voluto dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dalla Russia, si sono opposti sia i nazionalisti turchi sia quelli armeni.
L’accordo tra i due paesi deve essere ancora ratificato dai due parlamenti. Se approvato potrebbe avere conseguenze ampie che contribuiranno a porre fine all’isolamento economico dell’Armenia priva di uno sbocco sul mare; ciò favorirebbe inoltre il cammino della Turchia verso l’Unione Europea.
Per la signora Cetin la conseguenza più importante dovrebbe essere il superamento delle reciproche recriminazioni. Secondo quest’ultima infatti, gli armeni potranno sconfiggere definitivamente questa amnesia collettiva dei turchi, i quali sostengono che dopo il crollo dell’Impero Ottomano avvenuto durante la Prima Guerra Mondiale ci fu il caos totale che portò ai morti in Armenia: «La maggior parte delle persone nella società turca non hanno idea di quello che è accaduto nel 1915. Gli armeni sui libri di storia vengono descritti come mostri, criminali o nemici» spiega l’avvocato armeno.
«La Turchia – continua la Cetin – deve confrontarsi con il passato, ma prima che questo confronto possa avvenire, la gente deve sapere chi hanno di fronte».
Heranus, la nonna di Cetin, era solo una bambina quando i soldati turchi arrivarono nel villaggio di Maden. Heranus si nascose in una chiesa dove vide, arrampicandosi sulle mura della chiesa, uomini sgozzati e parti dei loro corpi gettate nel fiume Tigri che rimase colorato di rosso per giorni. Lei poi venne rapita da un ufficiale che l’adottò: fortunatamente, anche i suoi genitori si salvarono riuscendo ad andare a vivere a New York. «Mia nonna tremava mentre mi raccontava questa storia» ha aggiunto la Cetin.
L’avvocato, da sempre difende i diritti degli armeni: nel 2004 ha anche pubblicato un libro di memorie sui racconti della nonna dove, dice, ha volutamente omesso la parola “genocidio”, che se usata sarebbe stato un ennesimo blocco alla riconciliazione. «Ho voluto concentrarmi sulla dimensione umana. Ho voluto mettere in discussione il silenzio di persone come mia nonna, che hanno mantenuto le loro storie nascoste per anni».